“Chi non vuole restare, adiós.”
Una frase secca, affilata come uno strappo. Detta con la voce tesa, davanti alle telecamere di DAZN, in uno degli stadi più americani del mondo. Sembra quasi un frammento da sceneggiatura HBO. Ma non è fiction, è il Mondiale per Club. E a parlare è Lautaro Martínez, non un comprimario, ma il volto dell’Inter, il suo capitano.
La sconfitta con il Fluminense ha fatto male. Non tanto per il punteggio, quanto per quello che si è rotto subito dopo. Perché i Mondiali — anche quelli per club — servono a lasciare un segno. Quello lasciato dall’Inter, però, rischia di essere una cicatrice interna.
Il bersaglio silenzioso
Non ha fatto nomi, Lautaro. Ma lo ha fatto Marotta per lui, con la pacatezza di chi conosce il peso delle parole: “Era un messaggio per Calhanoglu.” Il turco, assente per un infortunio muscolare — almeno secondo la versione ufficiale — ha replicato su Instagram: “Un vero leader non cerca colpevoli quando è facile.”
Uno scambio passivo-aggressivo, degno dei giorni nostri. Tutto mediato dai social, tutto visibile, ma mai esplicito. Come accade spesso nelle grandi squadre, dove il conflitto interno è una pioggia costante che il campo a volte riesce a far evaporare. Ma non stavolta.
Leader, gerarchie e vecchie storie
L’episodio non è un unicum. La storia del calcio è piena di fratture consumate sotto la superficie della vittoria, o nelle macerie della sconfitta.
Nel 1998, Didier Deschamps era il capitano silenzioso di una Francia che stava per vincere il Mondiale. Ma nello spogliatoio i rapporti tra lui e Zinédine Zidane non erano esattamente idilliaci. Il regista juventino rappresentava il potere calmo, disciplinato; l’altro il talento ribelle. Vinsero, ma non si amarono mai davvero.
Oppure si può andare al 2010, a quel che successe nel ritiro della Francia in Sudafrica: Nicolas Anelka cacciato per insubordinazione, Evra che cerca di difendere lo spogliatoio e finisce travolto. Lì, però, non si trattava di crepe, ma di un crollo strutturale.
Nel caso dell’Inter, la frattura è sottile, ma profonda. Perché arriva dopo un biennio quasi irreale, in cui lo spogliatoio sembrava compatto, il gruppo solido, la leadership condivisa. Ed è proprio per questo che la crisi pesa di più.
Il problema della leadership
Calhanoglu ha rivendicato il proprio attaccamento al club, ha parlato di rispetto e responsabilità. Ma è bastato uno sguardo non condiviso, una mancanza di gesto, o forse un mancato sacrificio — reale o percepito — per far esplodere la bomba.
Lautaro, che negli ultimi anni ha maturato un peso crescente all’interno dello spogliatoio, ha sentito forse il dovere di esporsi. Ma ha scelto di farlo nel peggiore dei modi: pubblicamente, subito dopo una sconfitta, puntando implicitamente il dito su un compagno, senza concedergli appello.
Ed è qui che la leadership si fa problema. Un vero leader lo è anche nel silenzio. Anche nel saper frenare la lingua, o nel portare il dissenso tra le mura interne. Il rischio, altrimenti, è quello di trasformare un malumore in uno scisma.
Un Inter che cambia pelle?
Il sospetto, più che legittimo, è che l’Inter post-Mondiale per Club stia entrando in una fase di transizione. Marotta ha tenuto a precisare che “Calhanoglu non ha chiesto la cessione.” Ma il fatto stesso che una simile frase sia necessaria, è già una crepa.
Inoltre, la risposta social del turco ha ottenuto like e apprezzamenti (tra cui quello di Thuram) che fanno pensare a spaccature trasversali, a piccoli clan. È normale, in una squadra, che si formino gruppi. Lo è meno quando questi diventano fazioni. E il rischio, ora, è quello.
La stagione si apre con interrogativi pesanti: chi guiderà davvero l’Inter nei momenti chiave? Chi ha ancora voglia di restare? E quanto pesa ancora quella Champions League sfiorata nel 2023?
L’Inter e la fatica dell’unità
Il club nerazzurro si è spesso definito — o si è voluto definire — come una “famiglia”. Lo ha detto Simone Inzaghi più volte, lo ha ribadito Zhang. Ma le famiglie, quando litigano, lo fanno peggio delle aziende.
Maurizio Crosetti ha scritto su Repubblica che questa Inter è “come una famiglia dove sembra andare tutto bene, finché non ci si scanna per l’eredità del nonno.” E forse ha ragione: perché dietro alla sintonia di facciata, qualcosa covava. E la sconfitta col Fluminense ha fatto da esca.
Ricomporre o rifondare?
C’è ancora tempo per ricomporre. Ma serve intelligenza. Serve la volontà di parlarsi guardandosi negli occhi e non via post su Instagram. Servono parole dette all’interno, non slogan pubblici.
Oppure si può voltare pagina. Ma bisogna farlo con chiarezza. Perché se Lautaro e Calhanoglu non si riconoscono più reciprocamente come leader e compagni, allora è meglio scegliere. In un senso o nell’altro.
Nel calcio, come nella vita, l’unità è una fatica quotidiana. Ma è anche l’unica strada per vincere. L’Inter lo sa. Ora deve solo decidere chi vuole davvero percorrerla.