Nel calcio contemporaneo si fa sempre più largo un’espressione ricorrente: “giocare in modo spregiudicato”. È una definizione che tende ad assumere una connotazione positiva, quasi liberatoria: evoca un’idea di audacia, di calcio che non ha paura, che si prende il rischio, che si espone. Un calcio verticale, aggressivo, costruito per l’attacco. Un calcio che, non a caso, coincide spesso con lo spettacolo.
Ma a chi è destinato questo spettacolo? E, soprattutto, cosa stiamo sacrificando in nome di questa estetica così esposta e rumorosa?
Il calcio che (ci) devono vendere
Una delle immagini più emblematiche di questa tendenza arriva dalla recente eliminazione del Manchester City al Mondiale per Club. Una partita, quella contro l’Al Hilal di Simone Inzaghi, che ha avuto poco della rigidità tattica o della densità strategica che spesso associamo a una sfida ad eliminazione diretta. Il risultato finale – 4-3 ai supplementari – racconta una gara aperta, squilibrata, costantemente in bilico.
Nel mezzo: Marcos Leonardo, un brasiliano ex Santos, autore di una doppietta; un City vulnerabile nel controllo delle transizioni; e un’impressione generale di caos spettacolare. Il punto, però, non è che Guardiola abbia dimenticato come si vince. Il punto è che anche il suo calcio, che per anni è stato sinonimo di dominio posizionale e riduzione al minimo del rischio, oggi appare più esposto. Più spregiudicato.
Ma non per necessità. Per sistema.
Il calcio moderno, almeno quello di vertice, vive sempre più sotto la pressione di generare attenzione. È un gioco che si è ibridato con l’intrattenimento, che ha sposato le logiche della visibilità, che è costretto – letteralmente – a produrre contenuti. E quindi: più gol, più ribaltamenti, più spettacolarità. Più frammenti da isolare e impacchettare in formato reel.
In questo contesto, il calcio equilibrato, ordinato, perfino noioso, non ha più cittadinanza. Non si scrolla. Non buca lo schermo.
L’equilibrio come concetto perdente
Hansi Flick è forse l’allenatore che ha più incarnato – e al tempo stesso subito – questa logica. Il suo Bayern Monaco post-Covid era una squadra costruita sull’iperattività offensiva: pressing altissimo, linea difensiva a metà campo, terzini larghi come ali, costruzione verticale. Quel Bayern ha travolto il Barcellona con un 8-2 che sembra uscito da Football Manager, ma appena il ritmo è calato e gli spazi si sono compressi, il sistema è andato in crisi.
La Germania allenata da Flick ha provato a replicare quegli stessi principi nel contesto di una Nazionale, con risultati ancora più disastrosi. Perché la spregiudicatezza, in sé, non è un valore assoluto. Funziona solo in presenza di controllo. Di letture. Di adattamento.
Ma in un ecosistema sempre più guidato dalla richiesta di “contenuti”, il tempo della riflessione – e della gestione – sembra non esserci più. Ogni rallentamento è una colpa. Ogni passaggio arretrato un segnale di debolezza. La prudenza è diventata antiestetica.
Il dominio dell’algoritmo
Questa trasformazione ha radici più profonde della semplice evoluzione tattica. È una mutazione culturale. Il calcio, per molti versi, ha smesso di essere solo sport e si è inserito nel flusso continuo dei contenuti digitali. E come tutti i contenuti, oggi viene modellato dal funzionamento degli algoritmi.
Un possesso lungo, costruito con pazienza, che si conclude con un nulla di fatto, non finirà mai su TikTok. Ma un ribaltamento di fronte, un coast-to-coast da difesa a attacco, sì. Allora cosa conta davvero oggi? Segnare gol o produrre frammenti virali?
È una domanda retorica. Il calcio è diventato un linguaggio visivo, pensato per la fruizione istantanea. E questo influenza anche il modo in cui viene giocato. I club sanno che i contenuti generano valore. Che un giocatore capace di creare hype è più importante, talvolta, di uno capace di coprire una seconda linea di pressing.
Lo spettacolo non è più un sottoprodotto del gioco. È il gioco.
Estetica del rischio, estetica della sconfitta
Ma c’è un paradosso. Più aumentano i gol, più aumentano le partite fuori controllo. Il pressing alto, le difese alte, le transizioni continue: tutto porta il calcio verso un’estetica del rischio costante. Ma il rischio, per definizione, implica anche la possibilità di fallire. E infatti le partite “spettacolari” sono spesso partite perse.
Il calcio, nella sua essenza, è gestione dello spazio e del tempo. È lettura. È contesto. E se ogni azione dev’essere una corsa, ogni minuto una sequenza da esportare, allora stiamo perdendo la profondità di questo sport.
L’ossessione per il “giocare bene” ha scalzato quella per il “giocare per vincere”. L’idea che si possa giocare bene anche difendendo ordinatamente, occupando il campo, riducendo i rischi, è stata espulsa dal dibattito tecnico. È sparita l’ammirazione per chi sa spegnere una partita. O per chi sa congelarla.
Le squadre che vincono
Eppure, guardando chi vince davvero, il quadro si ribalta. Il Real Madrid di Ancelotti è stata una squadra camaleontica, non spregiudicata. L’Inter di Inzaghi è stata in grado di fondere transizioni veloci e compattezza strutturale. Il PSG che ha travolto l’Inter in finale di Champions non ha fatto nulla di particolarmente rivoluzionario: ha lavorato sulla solidità, sull’efficacia, sul talento nei duelli.
La verità è che il calcio ad alto livello non premia il caos, ma chi sa governarlo. La spregiudicatezza fine a se stessa è spesso una trappola: può funzionare in una stagione, in un ciclo breve, in un torneo. Ma sul lungo periodo, è l’intelligenza collettiva a emergere.
La bellezza che non si vede
Non si tratta di rifiutare il calcio offensivo. Si tratta di ridefinire il concetto di bellezza. C’è bellezza in un filtrante, ma anche in una copertura perfetta. C’è bellezza in un recupero difensivo, in una scalata ben eseguita, in un tempo di gioco sapientemente abbassato per addormentare l’avversario.
Il calcio spregiudicato, se non è sostenuto da una struttura, da un’identità solida e da una cultura del rischio consapevole, finisce per diventare rumore. Un rumore piacevole, per carità. Ma pur sempre rumore.
E se ci abituiamo a un calcio dove tutto è luce, dove tutto è “instant”, dove ogni partita deve sembrare una sintesi da 15 minuti… allora finiremo per perdere il senso stesso della partita. La sua profondità. Il suo tempo.
Quel tempo che non si scrolla. Ma si gioca.