C’è stato un tempo, neanche troppo lontano, in cui le società di calcio italiane erano governate da figure capaci di tenere insieme due mondi apparentemente inconciliabili: l’impresa e il campo. Adriano Galliani era uno di questi. Massimo Moratti e Luciano Moggi, a modo loro, pure. Sapevano fare i conti, certo. Ma soprattutto sapevano cosa significava gestire un gruppo di ragazzi che, ogni settimana, si portavano addosso il peso della maglia.
Oggi, osservando la gestione delle grandi squadre italiane, viene da chiedersi dove sia finita quella sensibilità umana.
Il Milan: il freddo algoritmo del nuovo mondo
Al Milan, dopo l’era Galliani, la transizione è stata brutale. Prima la gestione Yonghong Li, poi l’arrivo dei fondi americani. Elliott ha messo ordine nei conti, ma lo ha fatto come avrebbe fatto con un’azienda in crisi: tagli, razionalizzazioni, asset da valorizzare. E oggi RedBird ha proseguito su quella linea, più attento ai KPI finanziari che alle dinamiche di uno spogliatoio.
Cardinale parla di “entertainment company”. Furlani, CEO senza storia di campo, viene dipinto come un manager d’assalto. In tutto questo, le dinamiche umane – i rapporti tra allenatore e giocatori, la gestione di uomini con personalità complesse – restano sullo sfondo.
Il risultato è una squadra percepita come un insieme di asset da ottimizzare: Theo Hernández è una plusvalenza potenziale, Maignan un portiere “da ciclo chiuso” a cui dare un prezzo, Leão un investimento da proteggere più che un talento da costruire. E quando l’algoritmo fallisce – come nella stagione 2024/25, tra cambio di allenatore e risultati altalenanti – il sistema si scopre fragile.
La Juventus: la lunga deriva post-Marotta
Anche la Juventus è un caso emblematico. Con Marotta, Paratici e Allegri (nel primo ciclo), la società bianconera aveva trovato un equilibrio tra gestione economica e cultura di gruppo. Marotta sapeva mediare tra esigenze di bilancio e ambizioni sportive, gestendo calciatori e staff con quella sottile arte che va oltre le competenze manageriali.
Dopo la sua uscita, la Juventus ha imboccato una traiettoria diversa. La gestione Paratici si è rivelata più impulsiva, guidata da colpi di mercato e plusvalenze creative. Poi l’arrivo di dirigenti più legati al mondo corporate che al calcio giocato ha reso la Juve sempre più simile a un’azienda qualsiasi: asset, debiti, piani industriali. Lo shock della Superlega e l’onda lunga delle inchieste hanno solo accelerato il processo.
La Juventus di oggi parla la lingua delle trimestrali di Exor più che quella delle domeniche allo Stadium. Le scelte tecniche sembrano figlie di valutazioni spreadsheet-driven, dove l’uomo – il calciatore, l’allenatore, il tifoso – è solo un dato da inserire in un foglio Excel.
Il calcio-impresa e il vuoto di leadership
Non c’è nulla di male nel voler rendere il calcio sostenibile. Ma c’è una differenza sostanziale tra trattare un club come un’azienda e trattarlo solo come un’azienda. I migliori manager del passato – Galliani, Marotta, Braida – erano prima di tutto mediatori di conflitti, psicologi informali, leader capaci di gestire egocentrismi e fragilità. Oggi si chiede agli uomini di campo di adattarsi a logiche da corporate governance, come se un gruppo di ventenni strapagati fosse equiparabile a un team di project manager.
Eppure, il calcio resta un gioco profondamente umano. Richiede empatia, gestione delle emozioni, capacità di leggere lo spogliatoio come si legge un bilancio. Richiede la consapevolezza che i giocatori non sono “assets” ma persone, con vite complicate, ego smisurati e paure che nessun KPI può misurare.
Rischi e prospettive
Il rischio di questa deriva è duplice. Sul piano sportivo, la scollatura tra società e spogliatoio genera squadre senza anima, incapaci di reagire nei momenti di difficoltà. Sul piano culturale, aliena i tifosi, che non si riconoscono in club che li trattano da semplici clienti.
In fondo, l’impressione è che il nuovo management del calcio italiano abbia perso di vista una verità elementare: un club non è un’azienda qualsiasi. È una comunità, un simbolo, una somma di storie. Senza uomini capaci di tenere insieme conti e campo, il calcio rischia di trasformarsi in un prodotto senz’anima, destinato a deludere tutti: tifosi, giocatori e persino i manager stessi.