Rinaldo Morelli

Germania-Italia 3-3, una Nazionale, due volti

Alla fine resta un pareggio. Ma anche una sensazione: quella di un’occasione mancata, di una Nazionale che si è ricordata troppo tardi di essere in partita. A Dortmund, la Germania e l’Italia hanno costruito due tempi opposti, speculari, quasi schizofrenici. Il primo è stato dominio assoluto dei padroni di casa, il secondo una rimonta che per poco non ha assunto i contorni dell’epica. Finisce 3-3, con tre gol per parte distribuiti in due atti diversi, come due squadre diverse in campo. La Germania prenota le Final Four, l’Italia resta fuori. Spalletti si porta a casa segnali incoraggianti ma anche un primo tempo che è già materiale da autocritica.

Le formazioni: Nagelsmann a specchio, Spalletti sceglie la fisicità

Entrambi i tecnici scelgono il 3-4-2-1, ma con intenti diversi. Nagelsmann sorprende proponendo una difesa a tre con Schlotterbeck largo a sinistra, liberando così Mittelstädt in spinta costante. In mezzo al campo, Goretzka e Stiller garantiscono densità, mentre Musiala e Sané agiscono alle spalle della punta Kleindienst, abile sia a cucire che a attaccare la profondità.

Spalletti risponde con un’Italia muscolare, pensata per resistere nei primi 20 minuti e colpire in ripartenza. In difesa tornano Gatti e Buongiorno con Bastoni, mentre Di Lorenzo e Udogie presidiano le corsie. A centrocampo Ricci prende il posto di Rovella, con Tonali e Barella interni. Davanti, Maldini agisce a supporto dell’unica punta Kean, preferito a Retegui (assente) e a Raspadori.

L’idea dell’Italia è chiara: coprire il campo in verticale, chiudere le linee centrali, sfruttare le spalle larghe di Kean e il passo lungo di Maldini. Ma il piano salta subito.

Primo tempo: dominio assoluto tedesco, Italia impalpabile

Il primo tempo si gioca su un solo binario. La Germania aggredisce, l’Italia subisce. Al 45’, i numeri raccontano la storia: 18 tiri a 3, 64% di possesso palla, 6 tiri nello specchio contro zero, 25 tocchi in area italiana contro 4. Un dato: gli Expected Goals (xG) sono 2.94 per la Germania, appena 0.13 per l’Italia. La squadra di Spalletti è schiacciata nella propria metà campo, incapace di risalire. Ricci è annullato dalla densità tedesca, Barella e Tonali affondano in mezzo a Sané e Musiala, mentre Kean non riceve palloni giocabili.

La rete dell’1-0 arriva al 30’ su rigore, procurato da Kleindienst e trasformato da Kimmich. Il 2-0 è figlio di un blackout collettivo: Donnarumma dopo un grande intervento esce dai pali per urlare alla difesa, Kimmich batte subito l’angolo e Musiala insacca senza opposizione. Il terzo gol arriva ancora su palla laterale: cross di Kimmich, colpo di testa di Kleindienst che sovrasta Di Lorenzo. È una mattanza tecnica e mentale.

L’Italia non riesce a uscire: Gatti è in costante affanno, Maldini tocca tre palloni in 45 minuti, Ricci perde ogni duello. Spalletti aveva chiesto resistenza per venti minuti: dopo trenta, è già sotto di due. Dopo quarantacinque, è 3-0.

Secondo tempo: rivoluzione di Spalletti, reazione d’orgoglio

La ripresa è un’altra partita. Spalletti cambia subito: fuori Gatti e Maldini, dentro Politano e Frattesi. Cambia anche l’atteggiamento. L’Italia si alza, torna a quattro dietro con Di Lorenzo accentrato, e sfrutta le fasce con Politano e Udogie. Frattesi inserisce gamba e pressione, Barella si alza sulla linea di Kean. Il baricentro sale, il pressing funziona, la Germania inizia ad arretrare.

Il primo gol azzurro nasce da un errore in uscita di Kimmich, approfittato da Kean con freddezza. Sul secondo, è Raspadori – appena entrato per Tonali – a rompere la linea tedesca con un assist perfetto per Kean, che salta Tah e infila Baumann. Al 70’ è 3-2, e la partita è improvvisamente aperta.

Al 73’, l’Italia trova un rigore che potrebbe valere il pareggio: Di Lorenzo viene steso in area da Schlotterbeck. Marciniak assegna, ma poi il VAR lo richiama: decisione revocata. Episodio dubbio, forse decisivo. Poco dopo, un nuovo tocco di mano in area – stavolta netto – regala un altro rigore: Raspadori dal dischetto fa 3-3. A quel punto l’Italia è tutta in avanti, Spalletti toglie anche Kean per Lucca, ma la rimonta si ferma lì.

Il secondo tempo fotografa l’inversione totale dei dati: l’Italia pareggia il possesso (50%-50%), vince nei tocchi in area (11 a 3), negli xG (1.22 a 0.30), e nei tiri (6 a 4). È un’altra squadra, per intensità, qualità e lucidità. Troppo tardi.

Il peso dei primi 45 minuti

L’Italia ha mostrato due volti. Il primo, quello timoroso, mal posizionato, travolto da una Germania intensa e ben allenata. Il secondo, quello coraggioso, reattivo, capace di ribaltare l’inerzia tattica e psicologica del match. Ma nel calcio internazionale le partite durano novanta minuti, e i blackout si pagano. L’eliminazione brucia perché figlia soprattutto di quei primi 45’, nei quali l’Italia ha concesso tutto e ottenuto nulla.

La rimonta nella ripresa ha salvato l’onore, ma non il risultato. E ora Spalletti deve trovare l’equilibrio tra le due versioni della sua squadra. La strada verso il Mondiale 2026 comincia da Oslo, contro Haaland. Non sarà semplice. Ma dopo Dortmund, l’Italia ha imparato – di nuovo – che cominciare a giocare dal primo minuto non è una variabile, ma una necessità.

Italia-Germania 1-2, un viaggio a due velocità

È stata una partita strana”, ha detto Sandro Tonali nel post-partita. Una definizione perfetta, quasi definitiva, che riesce a spiegare tanto senza dire troppo. Una partita in cui l’Italia è sembrata se non migliore, almeno più brillante e per lunghi tratti più convinta, e che invece si è chiusa con una rimonta tedesca tanto lineare quanto chirurgica. Un altro episodio dentro una transizione lunga, difficile da leggere, che si chiama “ricostruzione”.

 

Un primo tempo da squadra vera

Luciano Spalletti aveva immaginato la partita in un certo modo, e nei primi 45 minuti ci era riuscito. L’Italia è scesa in campo con un 3-5-1-1 molto fluido, in cui le mezzali Tonali e Barella svolgevano il doppio compito di raccordo e aggressione, mentre Raspadori, ibrido tra seconda punta e trequartista, doveva galleggiare tra le linee. Politano, scelto come esterno destro a tutta fascia, è stato il vero ago della bilancia: spesso isolato in 1v1 con Raum, ha rappresentato la prima e più efficace valvola di sfogo.

Il gol del vantaggio è stato il manifesto dell’idea di Spalletti: riconquista bassa, cambio gioco di Bastoni sulla destra, combinazione Barella-Politano e arrivo di Tonali in rimorchio. Un’azione da manuale, pensata per sfruttare i limiti strutturali del 4-2-3-1 tedesco – in particolare l’altezza dei terzini in fase di possesso.

Per tutta la prima frazione, l’Italia ha lasciato palla alla Germania (41% il possesso finale), ma senza mai subire realmente. Musiala è rimasto ai margini, Sané spento, e il pressing tedesco – come contro la Francia a novembre – è stato neutralizzato dal dinamismo del centrocampo italiano e da un’uscita palla pulita, spesso diretta, ma non improvvisata. Il dato degli xG nel primo tempo (0.47 vs 0.39) riflette una sostanziale parità, ma l’Italia ha creato le occasioni migliori.

 

Il crollo di struttura e concentrazione

Il secondo tempo si è giocato su un’altra frequenza, e non solo per merito della Germania. Nagelsmann ha corretto tre dettagli chiave: ha inserito Schlotterbeck per Raum per stabilizzare la fase difensiva, ha spostato Sané a sinistra e Musiala al centro, ma soprattutto ha mandato in campo Kleindienst, centravanti con doti aeree opposte rispetto a Burkardt.

Quel cambio – apparentemente minimo – ha messo a nudo una delle debolezze strutturali dell’Italia: la difesa delle palle inattive e dei duelli aerei centrali. Su un cross perfetto di Kimmich, Kleindienst ha dominato Bastoni nel cuore dell’area per l’1-1. Il secondo gol, firmato da Goretzka su angolo, è arrivato con dinamiche simili.

L’Italia ha mostrato una buona capacità di reazione dopo l’1-1: due occasioni quasi in fotocopia firmate da Kean e Raspadori, entrambe su rifinitura di Tonali. Ma sono state fiammate più che soluzioni strutturate. Dopo i cambi, la squadra ha perso brillantezza e soprattutto connessioni: l’ingresso di Bellanova per Politano, ad esempio, ha sbilanciato la catena di destra, portando all’angolo da cui è nato il gol decisivo. A sinistra, l’infortunio di Calafiori ha complicato ulteriormente l’ultima fase di partita.

 

Tonali, il nuovo centro dell’universo azzurro

In mezzo a tutto questo, la nota più luminosa resta Sandro Tonali. Gol a parte, ha dominato il centrocampo: 2 occasioni create, 87% di precisione nei passaggi, 3 dribbling riusciti, 7 duelli vinti. Non è solo un incursore, non è solo un interditore: è un centrocampista completo, in grado di cambiare ritmo e direzione alla partita.

Il dibattito sul ruolo di Tonali – regista basso come al Newcastle o mezzala d’assalto come ieri – può aprire scenari nuovi. Un’Italia con Tonali-Barella come doppio motore e magari un terzo centrocampista più offensivo (Frattesi?) potrebbe diventare più verticale e meno dipendente dalle fasce.

 

Questione di centimetri e continuità

Non si può non tornare su un problema ormai ricorrente: i gol subiti di testa. Kleindienst e Goretzka hanno punito una linea difensiva troppo “gentile”, troppo poco dominante in area. Il tentativo di inserire Bellanova per alzare i centimetri ha avuto l’effetto opposto: l’Italia ha perso controllo e ha subito il corner decisivo da una sua palla persa.

Nella lettura di Spalletti – “ci è mancata continuità” – c’è il cuore del problema: questa Italia sa accendersi, ma non sa ancora gestire l’energia. Alterna momenti di grande lucidità a pause inspiegabili, come se si spegnesse. E in partite di questo livello, le pause si pagano.

 

Una sconfitta che non è una condanna

L’Italia ha perso, ma non è stata dominata. Ha subito due gol evitabili, ha mostrato margini di crescita evidenti e ha tenuto testa a una Germania più avanti nel percorso. Spalletti, con realismo, ha detto: “Possiamo vincere anche noi a Dortmund”. Non è solo una frase per i microfoni: il campo ha mostrato una squadra che può competere.

Il ritorno sarà difficile – serve vincere con due gol di scarto in casa tedesca – ma non impossibile. A patto di non sbagliare i dettagli, di crescere nella gestione e, soprattutto, di non disperdere quel che di buono si è visto. Perché, in fondo, questa “partita strana” potrebbe essere l’inizio di qualcosa.