Rinaldo Morelli

Il Milan è allo sbando

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Il Milan è allo sbando

Il Milan è allo sbando. Basterebbe questa dura ma reale considerazione per chiudere questo editoriale. In realtà, ci sono talmente tanti punti aperti sul tavolo che un approfondimento è necessario. Partiamo dal tecnico.

Paulo Fonseca non è stata una scelta di continuità rispetto a Pioli, Fonseca è stata la scelta low-cost e low-profile che i nostri dirigenti volevano. Sapete come la penso, il Mister è persona seria catapultata in un ambiente tossico, dove gli interessi societari rispetto al futuro prossimo vengono prima di qualsiasi altra cosa. Presentato senza che fosse presente, sbeffeggiato dal Senior Advisor in ogni conferenza stampa, isolato di fronte alle prime prevedibili difficoltà.

Di suo, fino ad ora, non ha messo nulla. Non si è vista una sola idea di gioco che rispecchiasse gli assurdi proclami estivi sul tristemente famoso “calcio di dominio e di possesso”. La scarsa capacità di valutazione della rosa a disposizione appare evidente. Se Fonseca fosse stato pienamente a conoscenza dei limiti personali e strutturali della rosa del Milan, non si sarebbe avventurato in proclami irrealizzabili.

Dopo Parma, dopo una partita vergognosa, Fonseca doveva essere esonerato. In quei 90 minuti si sono viste tutte le crepe che inevitabilmente ci porteremo dietro ad ogni esibizione del suo Milan. Il punto fondamentale è capire quanto il tecnico portoghese sia disposto a spingere prima che la nave affondi del tutto. Ritornerà sui suoi passi? Cercherà di compattare la squadra prendendo meno gol e risollevando l’autostima del gruppo? Riuscirà a lottare contro i suoi dirigenti, la squadra, la stampa e buona parte della tifoseria? Sinceramente, non lo invidio.

In questo marasma agostano, il Milan vacilla terribilmente. Se non ci fosse stata l’intuizione dei due reprobi, in questo momento avremmo 1 punto in classifica e saremo ultimi. La questione Leao e Theo è stata gestita malissimo, in puro stile Milan targato RedBird.

La voce di una loro esclusione si era diffusa molte ore prima della partita, questo gesto apparentemente “forte” da parte di Fonseca nasconde tutte le insicurezze e una gestione del gruppo estremamente approssimativa. Fare fuori tre giocatori (c’è anche Calabria tra i ripudiati) vuol dire attribuire a loro buona parte delle colpe della prestazione oscena di Parma. In un contesto simile, appare evidente come la crisi di rigetto di due senatori dello spogliatoio sia arrivata al suo culmine.

La scelta è risultata sbagliata anche per un’altra ragione. Dai tuoi giocatori migliori, in un Milan che certo non pullula di campioni, devi riuscire a tirare fuori la cattiveria e la voglia di reagire, di essere protagonista, di spazzare via attraverso una prestazione di livello le voci assurde che vogliono “Theo è IL problema del Milan”. Al contrario, l’esclusione prima e la pezza cucita da questi due più Abraham ha ribaltato il tavolo, rendendo Fonseca ancora più debole. L’esplicita manifestazione di contrarietà rispetto alle scelte dell’allenatore è solo una conseguenza (sbagliata) di una serie di errori che coinvolgono tutti.

La dirigenza del Milan si è ben guardata dall’intervenire con pubbliche dichiarazioni in queste settimane. Fonseca è stato abbandonato da colui che, purtroppo, in questo momento è l’emanazione della proprietà. Ibrahimovic ha passato l’estate a gonfiare il proprio ego attraverso post social funzionali solo a Ibra, a rilasciare dichiarazioni funzionali solo a Ibra, a cercare di fare il simpatico per dipingere l’immagine di uomo sicuro al comando.

L’assenza a Roma e la notizia delle sue vacanze (a proposito, chi ha fatto trapelare questa cosa?) hanno completato con una pennellata di sterco il quadro di un Milan indifeso e indifendibile. Si percepisce il totale scollamento tra dirigenza e squadra, tra allenatore e dirigenza, tra squadra e allenatore.

Cardinale si è affidato agli uomini sbagliati, è palese. Non ha capito (o non ha voluto capire) che se nel calcio esistono determinate figure e professionalità una ragione c’è. Ha cacciato quello che davvero era l’Uomo Immagine del Milan, oltre che dirigente vincente, per prenderne un altro che è l’Uomo Immagine di sé stesso. Ha provato, il buon Gerry, a rinvigorire il “milanismo” con uno dei più grandi individualisti della storia del calcio. Ottima scelta. Inoltre, come previsto, ha affidato la parte sportiva a figure professionali di scarsa o nulla esperienza. L’unica cosa che ha saputo fare, pro-suo, è stata quella di continuare a far crescere accordi commerciali e sponsorizzazioni, con il supporto di coraggiosi tifosi che ogni domenica riempiono San Siro per supportare lo scempio.

A questo punto della storia, anche il più strenuo difensore del MilanCommerciale si sta arrendendo all’evidenza dei fatti. A noi tifosi del bilancio non frega assolutamente nulla. La battaglia per portare il “mezzo miliardo di fans” nel lato oscuro della luna contabile è persa. Questa è la sola nota positiva di tutta questa amara vicenda.

Siamo stufi di fare della partita doppia invece di urlare per i gol della nostra squadra. Siamo stufi del “calcio moderno” dove tutto non può essere com’era perché quel calcio non esiste più. Esatto, quel calcio come quel Milan non esiste più, ma non è certo questo quello che vogliamo e non vediamo l’ora che questa fase storica diventi solamente una cosa della quale sorridere, come con la famosa foto di Yonghong-Li davanti alla sua credenza.

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Lo Stile Milan

Dovranno avere i capelli in ordine, c’è già un parrucchiere di Monza che ha detto farà i capelli gratis”. “Niente barba e niente tatuaggi, non voglio neanche orecchini vari. I miei giocatori saranno un esempio di correttezza in campo, si scuseranno con gli avversari in caso di fallo e tratteranno l’arbitro come un signore. Se richiesto l’autografo non faranno schizzi, ma scriveranno bene nome e cognome e andranno sempre in giro vestiti con sobrietà e a modo. Voglio qualcosa di diverso dal calcio attuale”.

Era il 5 ottobre del 2018 e Silvio Berlusconi aveva da poco rilevato il Monza. Dopo aver chiuso la parentesi più bella e vincente della storia del Milan, il Presidente aveva deciso di rituffarsi in prima persona nell’avventura brianzola. Un’avventura di successo, dato che gli investimenti e la competenza hanno portato il Monza in Serie A riuscendo a stabilirsi come realtà del calcio italiano.

La frase che ho riportato appare forse eccessiva, anacronistica, quasi goliardica se attribuita ad un uomo che ha fatto dell’ironia (spesso sopra le righe) un marchio di fabbrica, al pari dei suoi indiscutibili successi. Eppure, all’interno di quello che sembra un forzare la mano rispetto ai tempi moderni, c’è traccia di quello “stile Milan” che spesso è emerso.

Questo non ha rappresentato solamente il gioco, il voler imporre il dominio sportivo sull’avversario, le coppe e i trionfi. E’ stato il filo conduttore di un modo di porsi verso l’esterno, di un’apparenza che diventava spesso sostanza. Fa sorridere, pensando alle tante marachelle di Silvio Berlusconi, eppure questo atteggiamento può insegnare molto.

L’appartenenza ad un club che nasce “basso”, che ha tifosi “casciavìt” è la rappresentazione della voglia di migliorarsi che un tempo caratterizzava le classi meno alte. Negli anni ’70 non era insolito che un operaio andasse in fabbrica vestito di tutto punto per non mostrare, agli occhi dei passanti, la sua reale condizione. Far studiare un figlio, fargli prendere una laurea rappresentava l’orgoglio di chi aveva l’ambizione di crescere e migliorarsi.

Tutto intorno a noi era più elevato. I politici alla televisione parlavano una lingua ricercata, forzatamente forbita proprio allo scopo di non farsi capire da tutti. Questo grado di separazione spingeva ancora di più le persone a voler non solo sembrare ma anche essere migliori.

Oggi, coloro che dovrebbero rappresentare il livello superiore si comportano e parlano come, se non peggio, le classi inferiori. La spersonalizzazione, il voler essere “del popolo” non per aiutarlo ma solamente perché si è effettivamente allo stesso livello culturale è un pezzo di storia che racconta la decadenza della società attuale.

In quegli anni, almeno fino alla fine dei ’90 e all’avvento dei social network (veri catalizzatori di ignoranza e frustrazione), il senso di “stile Milan” emergeva chiarissimo.

Lealtà, sportività, dichiarazioni sobrie. Il tutto all’interno del mondo calcio, le cui dinamiche sono chiare. Questo per specificare che non voglio beatificare la gestione Berlusconi, la quale ha operato più e più volte danzando pericolosamente sul filo dell’estremo compromesso.

Specchio dei tempi, dicevo. In questo senso, le recenti disavventure social di colui che è stato eletto “uomo immagine” del Milan si inseriscono perfettamente nella realtà attuale. Le scenette con sedicenti “influencer”, l’azzeramento evidente di eleganza e stile (lo si nota anche dall’abbigliamento), la mancanza di quei freni inibitori che dovrebbero essere iscritti alla voce “1” del curriculum di un dirigente.

Il successo di queste iniziative porta sicuramente visibilità, porta il Milan nella dimensione del setaccio. Voler raccattare qualche migliaio di like o condivisioni social da parte di un pubblico giovane è sicuramente una strategia moderna ed efficace, tanto quanto becera e di cattivo gusto.

Nessuno può permettersi di fare il moralizzatore. La proprietà accetta e avalla questi teatrini ed essendo padrone del Milan è libera di agire come meglio crede. Allo stesso tempo, il tifoso può sentirsi per l’ennesima volta all’interno di quello che sembra più il Circo Barnum che un club calcistico.

La separazione tra il dirigente e l’influencer ancora non c’è stata e questo danneggia la nostra immagine. Forse, sottovoce, questa insofferenza nei confronti delle loro azioni è figlia del resto, ovvero del lato sportivo cementato come un lampione in Via della Mediocrità.

Il Milan targato RedBird è tutto un proliferare di messaggi veicolati e vincolanti. Un martellamento costante su temi prettamente occidentali, su campagne sociali più o meno opportune made in USA. Nulla di sbagliato in un mondo dove i calciatori della Nazionale francese indirizzano le intenzioni di voto. Purtroppo, per noi come per i francesi, questo non ha a che vedere con il pallone o per meglio dire non ha a che vedere con lo “stile”.

Affrontare temi delicati e di difficile soluzione con slogan e merchandising ha il sapore beffardo della fregatura. In un mondo asfissiato dal “politically correct”, in un mondo dove ci crediamo liberi ma siamo in realtà molto più censurati, scoprire che le finalità sono diverse dall’apparenza può creare rigetto.

Prestiamo attenzione a qualsiasi tema che produca profitto, tranne quello per il quale si tifa una squadra: il campo. Questa gestione asettica e fintamente sensibile ai grandi temi del nostro mondo sta creando distacco tra i tifosi e la squadra. Il Milan non sembra più un club che ha come obiettivo la vittoria, bensì qualcos’altro. Un qualcosa di indefinito e melasso tanto quanto la propaganda sbilanciata che si appoggia per fare cassa.

Una cosa è certa, questo non è lo “stile Milan”. Questa è un’altra cosa.

Come sempre, a conclusione di queste riflessioni, rimane solamente la speranza che un giorno potremo liberarci di tutto questo e tornare a tifare un club al quale interessa primariamente ciò che accade sul terreno di gioco.

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Chi vuole bene al Milan?

Non sempre una stagione che inizia all’insegna della malinconia finisce male. Ci sono stati casi nei quali un tecnico poco amato si è dimostrato all’altezza, dissipando le nubi che si erano addensate sulla sua testa dal momento dell’annuncio.

Paulo Fonseca è arrivato a Milano sotto un cielo limpido, senza nuvole. È arrivato in sordina, abbigliamento “Casual Saturday”, sorriso cordiale. Fonseca è così, una persona cordiale. Chissà se al tecnico portoghese sono giunte le voci di un malumore diffuso tra i tifosi della sua nuova squadra. Chissà se Fonseca avrà la forza per resistere ad un ambiente slegato, dove probabilmente sarà solo prima del previsto.

Anzi, stando all’accoglienza (senza un dirigente di primo livello ad aspettarlo) possiamo ipotizzare che Fonseca sia GIÀ solo. Il suo predecessore, Stefano Pioli, venne scaricato rapidamente, quando da Casa Milan si lasciava intendere che a meno di tracolli sarebbe stato ancora lui alla guida dei rossoneri. La solitudine è compagna degli allenatori ma cattiva aiutante dei successi e delle vittorie.

Una squadra vincente, prima di tutto, ha una società forte. Per “società forte” si intende un gruppo di professionisti capaci di legare l’ambiente verso l’obiettivo, di prendere decisioni importanti, di costruire una squadra competitiva e tenerla per tutta la stagione sulla retta via. I presupposti, al momento, sembrano non esserci.

In questi giorni post disastro Europeo, il Corriere dello Sport ha pubblicato uno sferzante editoriale che sottolineava l’inadeguatezza di alcuni calciatori che in Germania hanno fatto una pessima figura. I loro social sono stati inondati di immagini festanti, come se quello che è accaduto a Berlino non appartenesse a loro.

Nulla di male in linea di principio, anzi in linea con i princìpi della società contemporanea. Quelli più vecchietti o bacchettoni (scegliete voi) hanno alzato il sopracciglio rilevando se fosse opportuno o meno. Allo stesso modo, il weekend di vacanza di Zlatan Ibrahimovic coinciso con l’arrivo di Fonseca a Milan ha sollevato dubbi sull’opportunità di avere un dirigente “social” come lui.

In realtà, sappiamo bene come IIbrahimovic sia dirigente di sé stesso in primis. Il racconto della sua incidenza sulle decisioni è, per l’appunto, un racconto. Lui rappresenta l’immagine, è il frontman, quello che “basta se ne parli, bene o male non ha importanza”. Nell’estate difficile dei milanisti, fatta di attesa per un colpo di prospettiva che ancora non c’è, tutto questo non aiuta ed è inopportuno.

Non sappiamo come operano i nostri dirigenti, non sappiamo se le difficoltà apparenti siano solo racconto giornalistico oppure verità. La sensazione che percepiamo è quella di un immobilismo dettato dai soliti vincoli, dai soliti limiti imposti da una proprietà che fa dell’amara continuità il suo marchio di fabbrica.

In una stagione dai presupposti differenti, dove molte squadre cercano il rilancio, rischiare di partire male è pericoloso. Lato tecnico, servirà tempo per assimilare le richieste di Fonseca; lato mercato, la squadra ha bisogno di innesti che ne equilibrino la rosa e la rinforzino.

La manfrina sul centravanti ha contribuito a soffiare sul fuoco. Lo spiraglio di un investimento in prospettiva aveva quasi concesso credito a Furlani & Co., il ritorno alla realtà è stato brusco seppur non inaspettato.

Un inizio di stagione in tono decisamente minore, senza tifosi al raduno, senza nuovi acquisti, con un allenatore che vive a Milanello. Anche questo fatto, probabilmente concordato e senza alcun secondo fine, lascia spazio all’ironia. Tutti i pezzi del puzzle Milan sembrano comporsi per mostrare un’immagine opaca, senza ambizioni. La scelta di un numero 9 “d’esperienza e a basso costo” rimanda alle parole di Scaroni sul piazzamento vitale, Scudetto casuale.

Non c’è stato fino ad ora nessun balzo in avanti, nessun fatto che ci possa permettere di approcciare alla prossima stagione con entusiasmo. A misurare la febbre del tifo rossonero non sono sufficienti gli abbonamenti a San Siro, numero che andrebbe analizzato per capire davvero perché ciò accade. Nessuna colpevolizzazione rispetto a chi ha deciso di fare o rinnovare, ci mancherebbe, ma non è quella la misura che racconta l’attesa.

Ripartiamo dal titolo di questo scritto: chi vuole bene al Milan? Noi, sicuramente. Fonseca, speriamo. Il resto è difficile immaginarlo struggersi per l’impossibilità di spendere oltre i canonici 20-25M + bonus, marchio di fabbrica della gestione Elliott/RedBird.

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Una parola di conforto per i milanisti

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Una parola di conforto per i milanisti

Qualche giorno fa, ho ricevuto una mail da una persona che segue i miei video, tifa Milan e non ha un’età tale da potersi ricordare per esperienza diretta cosa abbiamo rappresentato nel panorama del calcio mondiale.

In quello scritto, ricco di aneddoti legati ad una famiglia rossonera, emergeva un senso di sconforto e rassegnazione, la paura di un futuro poco roseo e con prospettive a tinte grigie.

Mi si chiedeva una parola di conforto, uno spiraglio nel quale infilarsi per poter ritornare a seguire il Milan con passione e trasporto, una chiave di lettura della situazione per ritornare a sognare. Questo messaggio ha scatenato in me una doppia reazione.

Da un lato avrei voluto trovare le parole giuste per confortarlo, dall’altro ho ricominciato ad interrogarmi sull’attuale situazione del Milan. Al netto di quelle che sono posizioni estreme (sempre pro, sempre contro) la sensazione che ho è quella dello stallo. Ho l’impressione che si stia vivendo una fase di transizione senza conoscerne la fine, un lungo cammino fatto insieme ad una proprietà di passaggio e un futuro tutto da scrivere.

Naturalmente, questa è solo una supposizione. Nei mesi scorsi abbiamo assistito ad un momento particolarmente importante legato alle indagini relative ai veri proprietari del Milan. All’interno di un’azione a procedere che non vedrà la luce, siamo venuti a conoscenza di un reale interessamento da parte di fondi arabi nell’investire sul Milan. Quella che sembrava solo un’indiscrezione si è materializzata, aiutandoci a sopravvivere in un periodo della stagione molto complicato.

Eravamo all’epilogo del ciclo Pioli, tra l’eliminazione dall’Europa League e il Derby perso in casa che ha consegnato lo scudetto numero 20 all’Inter. Un periodo particolarmente difficile, sportivamente parlando, che ha segnato la stagione e contribuito ad intaccare la granitica certezza di una parte della tifoseria nei confronti della dirigenza.

In un momento così delicato, ecco che la “speranza araba” assumeva contorni quasi mistici: “Maldini guida la cordata”, “Cessione entro la fine della stagione”, “Milioni di euro per il mercato” e via discorrendo. Purtroppo, la realtà ha fatto quello che fa sempre, si è palesata riportandoci a dover leggere quotidianamente su Telegram i giorni che ci separano dalla fatidica data di restituzione del prestito da parte di Gerry Cardinale e la sua RedBird.

Sarà quello il punto di svolta? Come giudicare l’operato e quello che accadrà la prossima stagione? Siamo sospesi, ed è proprio questo galleggiare che ci provoca angoscia. Abbiamo creduto alla rivoluzione estiva scorsa, abbiamo creduto che il dopo Pioli sarebbe stato di livello più alto (pur concedendo a Fonseca il diritto di provarci), abbiamo annusato un colpo importante come Zirkzee.

Eppure, non tutto è male. Da un punto di vista economico si viaggia alla grande, i margini per operare bene lato sportivo ci sarebbero ma sappiamo come la virtuosa volontà dei nostri manager cozzi terribilmente con la fame di successi di noi tifosi. Il problema di fondo è che il Milan non sembra più il Milan, sembra un prodotto bellino, ben confezionato, molto presentabile ma svuotato di anima.

Non mi interessa se nel calcio moderno la calcolatrice vale più del cuore. Se devo rassegnarmi all’idea che “datemi un file di Excel e vi solleverò il mondo” allora preferisco occupare il tempo facendo altro. Invece no, non ho intenzione di cedere su questo aspetto.

Sono stato accusato di retorica e populismo quando ho evidenziato questa mancanza, l’identità che abbiamo perso dopo la cacciata dell’ultimo rappresentante che ci era rimasto del “milanismo” per come lo intendo io.

Non capisco come non si possa tenere conto di questo aspetto. Quando abbiamo vinto l’ultimo, esaltante, scudetto avevamo creato un’unione di intenti e anime che è stata alla base di quel trionfo. Tutto il Milan, dall’ultimo tifoso al primo dirigente, si era compattato verso l’obiettivo, si è creato un blocco unico che da cuore è diventato squadra.

Senza l’evidente possibilità di comprare campioni capaci di indirizzare le sorti di una stagione, quello che una società come la nostra dovrebbe fare è creare gruppo, esaltare i valori presenti e trasferire senso di appartenenza e quel calore che, in particolar modo, contraddistingue noi italiani, passionali e viscerali quando si parla di calcio.

Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio”.

In questo senso, mi ha fatto piacere ricevere quel messaggio da un ragazzo giovane, da chi si rende conto di come si stia tentando di prosciugare il senso di appartenenza.

Ogni generazione ha dei valori, come giusto che sia. Nell’ultimo anno ho pensato che il nuovo tifo rossonero fosse cresciuto con una visione moderna, affaristica, poco romantica e molto “numerica”. Ho pensato che i risultati degli ultimi anni avessero risollevato il loro umore, dopo aver attraversato gli anni della c.d. “Banter era”. Non basta.

Non è sufficiente, non è giusto. L’appartenenza non è fede, non è una cieca obbedienza a tutto quello che qualcuno decide di imporre. Il Milan necessita di un’anima, ha bisogno di ricreare l’unità di intenti che lega la squadra ai tifosi. I tifosi, oggi, sono visti come un qualcosa di occasionale, affezionati al marchio e all’evento, distaccati nei giorni dove non c’è la partita.

La visione della nostra proprietà è questa. Il distacco che loro mostrano è quello che vorrebbero insegnare al tifoso. Vogliono riempire lo stadio, vendere merchandising, fare profitto senza sforzo, senza paura, senza voglia di osare e soprattutto vincere. Vogliono portarci nella nuova dimensione dove la vittoria o la sconfitta sono contorno rispetto al prodotto offerto, il quale deve valorizzarsi a livello di sistema per generare ancora più profitto.

Se questa proprietà avesse non dico lungimiranza ma almeno furbizia, terrebbe conto di tutto questo. Proverebbe a riaccendere il legame tra lei e i tifosi “veri”, quelli che vivono il calcio come passione e non come una puntata di una serie TV.

Questo vorrei vedere, questo potrebbe essere il primo passo per ritornare ad essere credibili. Fatto questo, la struttura societaria dovrebbe infarcirsi di persone abili e competenti, ciascuna nel ruolo giusto. Anche questa superficialità nel mantenimento di un organigramma incompleto ci riporta alla sensazione di stallo, al limbo nel quale attendiamo che accada qualcosa.

Pensare che basterebbe così poco per riavere credito, aldilà della campagna acquisti o di figure di rappresentanza tanto esposte quanto inutili.

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Il modello RedBIrd: organizzazione, utilizzo dei dati e progetto sportivo

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Il modello RedBird: organizzazione, utilizzo dei dati e progetto sportivo

Di Enrico Bertilorenzi

Il tema degli algoritmi applicati allo sport e all’utilizzo dei dati nel calcio, assomiglia al rapporto tra la macchina fotografica e la fotocamera del cellulare. Dieci, quindici anni fa la qualità della fotografia che poteva dare la fotocamera del cellulare era molto bassa. In cambio però era uno strumento nuovo, molto pratico e alla portata di tutti. Oggi rimane un bel divario, ma anche con una fotocamera si possono fare buone foto.

La mia impressione è che l’utilizzo massivo dei dati come strumento preferenziale di studio nel calcio attualmente si addica a chi ha bisogno di un risultato immediato, una istantanea su un aspetto del gioco o su un singolo giocatore, per chi non ha tempo o risorse per costruire una rete di scout che giri il mondo. Oggi l’utilizzo dei dati applicati al calcio è divenuta una componente fondamentale, le cui capacità di risposta sono enormemente maggiori rispetto ad anni fa. Ma nella “fotografia” che queste analisi scattano, spesso si perdono i dettagli. E il calcio è uno sport che si basa decisamente sui dettagli.

Un giorno arriveremo magari ad avere strumenti molto-molto complessi, capaci di dare risultati ottimi. Ma attualmente siamo ancora lontani da questo giorno e stiamo vivendo una fase di transizione che, come tutte le fasi di transizione, soffre di “eccitazione da nuova scoperta”. Siamo cioè nello stesso momento di dieci anni fa, quando i più entusiasti preferivano comprare un telefono per scattare le foto piuttosto che una macchina fotografica.

Il progetto di Cardinale intende guidare questa fase di transizione e dare luce a un modello organizzativo che possa essere preso da esempio in futuro. E in che cosa consista questo progetto è stato proprio lui a spiegarcelo: nel corso di una delle sue tante dichiarazioni pubbliche, Cardinale ha esplicitato la sua intenzione di importare al Milan un modello ibrido tra scouting tradizionale e scouting analitico, tra occhio umano ed analisi dei dati, nella scelta dei giocatori e nella gestione degli aspetti sportivi della squadra. Per applicare con profitto questo modello ibrido, tuttavia, si devono risolvere tre ordini di problemi:

  • – valutare il livello di efficacia degli stessi strumenti analitici, conoscerne i loro punti di forza e i loro limiti;
  • – rispondere alla necessità, insita nel voler applicare uno schema ibrido, di dover far lavorare insieme proficuamente strumenti differenti di studio;
  • – la questione della competenza e della conoscenza della materia, sia dal punto di vista tecnico che analitico, che deve essere presente ad ogni livello.


Dietro all’efficacia o meno degli algoritmi ci sono due principali questioni: come vengono impostati e come si va ad interpretare i risultati. Per creare un buono strumento serve a monte una capacità di lettura e di comprensione non banale delle dinamiche profonde del calcio. Questo fatto mi permette di arrivare a una conclusione preliminare della mia riflessione. Per far sì che questo piano di Cardinale funzioni, paradossalmente, a noi sembra mancare la cosa più importante di tutte per farla funzionare: le valutazioni qualitative da parte di persone professionalmente esperte e competenti nel gioco del calcio.

Il Liverpool può permettersi una scommessa come Slot (e il Bayern può permettersi di scegliere Kompany) perché hanno una macchina da guerra a livello di organizzazione, strutturata in modo scientifico, con professionalità di prim’ordine posizionate in ogni possibile micro-settore del calcio. È uscito a tal proposito un articolo del NY Times che spiega il funzionamento della struttura del Liverpool e del processo decisionale che hanno portato alla scelta di Slot. Al Liverpool esiste un CEO del settore calcio, specializzato esclusivamente in questo ambito e con una comprovata esperienza, che supervisiona una struttura composta da un Direttore Sportivo, un Direttore Tecnico e un altro Direttore incaricato dello sviluppo sportivo. L’allenatore, insieme al suo staff, riferisce direttamente al Direttore Sportivo. Hanno poi un ramo finanziario separato, che dialoga certamente con quello sportivo, ma lo fa su basi formalmente paritarie. Esso è composto da un CEO del settore finanziario, un Managing Director e un Direttore Commerciale. Entrambi questi rami rispondo alla proprietà.

In questa situazione, chi si occupa di questioni finanziarie è strutturalmente estraneo alle decisioni tecniche. Al Milan, invece, esiste un Team di lavoro con un unico CEO (Furlani) che partecipa alle decisioni tecniche insieme al Direttore Sportivo (D’Ottavio), al Direttore Tecnico (Moncada) e a un consulente esterno della proprietà (Ibrahimovic), che a quanto si dice dovrebbe supervisionare il lavoro di tutti gli altri.

Non solo l’organizzazione, ma anche la scelta del personale è differente. Dove al Liverpool ogni casella è occupata da professionisti con formazione specifica, competenza ed esperienza nel loro ambito, noi abbiamo come Presidente una figura a cavallo tra il mondo dell’impresa e quello della politica, come CEO un dirigente che nella vita faceva il portfolio manager di Elliot, come Direttore Sportivo uno che fino a ieri faceva l’osservatore, come Direttore Tecnico un capo scout e come Consulente esterno uno che fino all’anno scorso faceva il calciatore. Non è proprio la stessa cosa.

Torno alla questione dei dati e la ricollego con il tema dell’organizzazione societaria. Noi, in verità, non abbiamo una struttura, ma abbiamo una doppia struttura: una interna al club – quella di cui parlavo – e una esterna.

RedBird possiede infatti questa società di analisi dati che si chiama Zelus analytics e che fin dal primo giorno è stata presentata come un supporto all’area tecnica del Milan. Al Tolosa era questa società a prendere le decisioni sportive, per stessa ammissione di Cardinale. La domanda che mi pongo adesso è la seguente: quanto peso ha Zelus analytics nelle decisioni sportive che vengono prese? Essa potrebbe essere sia una struttura di semplice supporto oppure, come inizio a pensare, una struttura con potere decisionale.

La pulce all’orecchio me l’ha messa qualche settimana fa una notizia, nella quale si diceva che, dopo la cacciata di Maldini e Massara, il Milan avesse prima cercato di ingaggiare Giuntoli, poi Sartori, e che entrambi avessero poi declinato. Giuntoli aveva già un accordo con la Juve, ma Sartori? Perché non è venuto al Milan?

Io mi do questa risposta: i direttori sportivi veri non vengono a lavorare da noi non tanto per i limiti di spesa o la manifesta poca ambizione della proprietà; essi non vengono per l’ingerenza di questa struttura esterna e per il fatto che, essendo esterna e facendo capo direttamente alla proprietà, essi non sono messi nella condizione di poter modificare, implementare, mettere bocca o mano sul lavoro che viene fatto da questa azienda. Il paradosso che non permette al team integrato di coinvolgere personalità dalla comprovata esperienza e di lavorare secondo un metodo basato sull’autonomia-responsabilità dei suoi singoli componenti, permettimi l’ironia, consiste proprio nella mancata integrazione di questo gruppo di lavoro che risulta esterno alla società Milan.

Non avendo dunque trovato professionalità di ruolo da inserire nelle giuste caselle, e dovendo prendere decisioni in tempi stretti – la stagione stava iniziando – si è pensato ad apportare una riorganizzazione interna. Unendo i puntini, Moncada e D’Ottavio non sono altro che un ripiego. E allora, siamo proprio sicuri che la scelta di figure così inesperte in ruoli così importanti non abbia – volutamente o meno – spalancato le porte ad un aumento ingerenza proprio di Zelus analytics nel processo decisionale delle scelte tecniche? Siamo proprio sicuri che le decisioni di campo siano state prese in autonomia dalla nostra dirigenza sportiva?

Provando a fare un’analisi spicciola, un poco anche sul filo della provocazione, basata sul mercato fatto questa estate e tenendo a mente quelli che possono essere i difetti strutturali di un modello di scouting basato esclusivamente sull’analisi dei dati, forse possiamo trovare alcune risposte.

Il mercato di questa estate, quasi unanimemente, è stato giudicato come caratterizzato dall’acquisto di giocatori bravi se presi singolarmente, a cui è mancata un amalgama, e nella cui selezione non si è tenuto probabilmente conto di aspetti importanti a livello tattico e nelle caratteristiche degli stessi.

Nonostante i vantaggi evidenti che l’analisi dei dati apporta nel migliorare la scelta dei giocatori (che ne spiegano anche l’estrema diffusione nelle società di calcio), l’utilizzo dei dati nello scouting, se usato in modo esclusivo o se non supportato dalle giuste competenze tecniche, presenta diversi problemi intrinseci.

  • – Un problema di questo processo può derivare, ad esempio, dalla mancanza di contesto: un calciatore che gioca in una squadra forte avrà naturalmente migliori statistiche rispetto a uno che gioca in una squadra debole. E noi quante volte abbiamo scherzato questa estate su chi vedeva Musah come un perfetto mediano incontrista basandosi sulle partite di qualificazione fatte con la nazionale statunitense?
  • – Un altro problema può derivare da quelli che sono i bias intrinseci del modello statistico. Noi possiamo, ad esempio, pensare ragionevolmente che un giocatore alto e strutturato fisicamente sia portato a vincere contrasti e a vincere duelli di testa, ma non è detto che ciò avvenga… e un giocatore come RLC sembrerebbe dimostrarlo.
  • – Esistono poi aspetti del gioco che difficilmente i dati possono cogliere, come il carisma, la leadership e la capacità di gestire la pressione. E quante volte noi ce lo siamo detto che i nuovi acquisti, pur bravi, scompaiono nelle partite importanti?
  • – Un altro fattore umano che difficilmente viene colto da un’analisi prettamente analitica è quella dell’adattabilità di un calciatore ad un contesto diverso, sia a livello ambientale, che di stile di gioco. E questo forse spiegherebbe come mai un giocatore come Chukwueze, che nel contesto del Villlareal faceva vedere ottime cose, quest’anno abbia avuto grandi difficoltà.
  • – Infine, i dati storici che vengono utilizzati nel gestire gli infortuni e il loro recupero non sempre riescono a predire correttamente come un giocatore si riprenderà o come manterrà la forma fisica nel tempo. Questa estate si diceva per l’appunto che Zelus analytics avrebbe avuto un ruolo di supporto anche in questo ambito. Siccome abbiamo avuto tanti problemi sotto questo punto di vista – che per verità fanno parte da sempre della gestione Pioli – possiamo dire quantomeno che questo supporto non ha portato ad apprezzabili miglioramenti rispetto agli anni passati.

 

La mia impressione è dunque che questo esperimento di ibridazione tra scouting tradizionale e scouting analitico non stia funzionando come dovrebbe e che questo dipenda dalla mancata integrazione di Zelus analytics in un sistema coerente di lavoro. Ed è un problema difficile da superare se consideriamo che una delle principali innovazioni metodologiche che Cardinale avrebbe voluto portare consiste proprio nella esternalizzazione – parziale ma cospicua – dell’analisi dei dati.

Mi avvio alla conclusione e arrivo alla questione dell’allenatore. È risaputo che i nostri dirigenti, ad un certo punto della stagione, fossero stupiti dalle eccessive critiche che il percorso della squadra stava ricevendo e che fino all’ultimo abbiano sperato che vi fossero le condizioni per poterlo riconfermare sulla panchina del Milan. Alla fine della fiera, secondo una lettura piuttosto fredda, Pioli è un allenatore che con il quarto payroll della Serie A chiude il campionato in seconda posizione e che con il quarto payroll del nostro girone di CL chiude terzo.

Le considerazioni tecniche sul suo prossimo sostituto le hai fatte tu in un video e sono estremamente condivisibili: i nostri dirigenti cercavano un allenatore che potesse sistemare alcuni aspetti del nostro gioco ma che, allo stesso tempo, potesse dare continuità al lavoro fatto da Pioli. Essi erano inoltre alla ricerca di un profilo che – aggiungo – potesse anche confermare la bontà del mercato dello scorso anno ed evitare stravolgimenti di rosa, quindi essere coerente con la strategia dei puntellamenti esposta da Furlani in una delle sue ultime interviste.

Arriva dunque Fonseca che, con l’ottavo payroll della Ligue 1, ha chiuso il campionato al quarto posto. E, al di là di considerazioni tecniche, è probabilmente la sua capacità di “adattamento” – chiamiamola così – ad aver particolarmente colpito i nostri dirigenti. E su questo non solo hanno insistito molto i giornali, ma soprattutto nessuno in società ha pensato di far filtrare una lettura diversa dei motivi di questa scelta.

Fonseca ci viene presentato infatti come un allenatore senza velleità di essere accentratore e che quindi – tradotto – si rende disponibile a lavorare con questa doppia struttura, a delegare sia la parte del mercato e della scelta dei profili, sia quella della preparazione atletica e degli infortuni. Non mi addentro in considerazioni esagerate, ma ritengo lecito sospettare che pure l’organizzazione tattica in campo sia in qualche modo consigliata da uno studio dei dati inerente all’occupazione degli spazi, alla pericolosità di alcune trame rispetto ad altre, ecc.

Ma, ad ogni modo, quello che mi preme sottolineare è che Fonseca, per il modo in cui intendono lavorare, è probabilmente una scelta più che logica. Guai a definirla una “scelta a caso”.

Il tifoso è portato ad essere deluso da questa scelta, ad elencare gli allenatori bravi che sarebbero potuti arrivare e a confrontarli con la profilo di Fonseca. Il punto è che questa proprietà non era alla ricerca del profilo migliore possibile. Non era intenzione di questa proprietà ridisegnare l’organizzazione societaria, rivoluzionare il metodo di lavoro.

La nostra proprietà era invece alla ricerca di un profilo che potesse al meglio interpretare e tradurre nel concreto quello che è il loro progetto, la loro organizzazione e il loro metodo di lavoro, che bisogna considerare come dato e solo parzialmente modificabile.

In questo senso, è lo stesso Cardinale ad aver chiarito questo punto: “non bisogna cambiare, ma far evolvere le cose”.

Cambiare le cose avrebbe voluto dire rivedere i rapporti tra la dirigenza sportiva e Zelus analytics, cercare nuove strade di ibridazione tra scouting tradizionale e scouting analitico, e quindi a cascata potersi permettere una figura di carriera a direzione dell’area sportiva – con deleghe ed autonomia – e un allenatore la cui scelta sarebbe avvenuta attraverso una combinazione di parametri tecnico-tattici ed economici, e sulla quale non avrebbero avuto un grande peso aspetti di tipo organizzativo.
Una scelta questa che avrebbe maggiormente tenuto in considerazione i fattori caratteriali dell’allenatore, le specificità del campionato appena trascorso, il morale e le aspettative non solo della piazza, ma anzitutto dei calciatori.

Evolvere significa invece aggiustare un modello ritenuto valido, migliorare alcuni aspetti che si sono rivelati nel frattempo critici, accogliere magari alcune specifiche innovazioni, ma senza cambiare strada, senza rivedere l’idea di ibridazione che hanno in mente loro e l’organizzazione che è allo stesso tempo risultato ed elemento fondante di questa idea.

Di questa evoluzione fa parte anche l’introduzione di Ibrahimovic nel quadro dirigenziale. Un’aggiunta che, se letta in questi termini, assume una spiegazione, come assume una spiegazione anche una certa oscurità insita nel suo ruolo. Egli è stato posto come consulente esterno del club nell’intento di inserire una figura di raccordo. Un ruolo che ci è stato spiegato in due occasioni: attraverso il comunicato, elencando ogni singola questione nella quale avrebbe potuto avere un ruolo operativo; tramite le parole dette da Cardinale all’evento del Financial Times, nelle quali ci è stato presentato con la vaga formula del proxy, “la voce di Cardinale”, sostanzialmente un rappresentante della proprietà nei rapporti con i vari dipendenti.

L’oscurità è appunto insita nel suo ruolo, essendo lui una figura di riferimento che potremmo definire – a seconda delle sfumature che vogliamo adottare – come supervisore, coordinatore, facilitatore, supplente, tappabuchi, rispetto a una struttura organizzativa che però non ci viene espressamente presentata nella sua forma reale.

Ibrahimovic è stato chiamato come parte del processo di evoluzione, come figura di raccordo tra l’anima RedBird e quella Milan della nostra organizzazione, tra le esigenze del campo e le letture analitiche, tra l’allenatore e il gruppo, tra l’area commerciale e quella sportiva. Non certamente come figura dotata di un chiaro mandato ed incaricata di mettere in piedi un nuovo progetto sportivo, un nuovo metodo di lavoro, una nuova organizzazione societaria come magari certi tifosi, sobillati da certi organi di stampa, hanno sperato.

I tifosi oggi sono scontenti. Volevano un progetto sportivo vincente, personalità competenti e con esperienza – e quindi una struttura chiara e una chiara linea di demarcazione tra le responsabilità dei singoli –, un allenatore di alto profilo scelto sulla base di valutazioni tecniche, tattiche ed ambientali.

Forse più modestamente, la nostra proprietà era invece alla ricerca di un profilo che garantisse coerenza con il metodo di lavoro dato, che potesse dare continuità alle scelte fatte in precedenza e, più in generale, che potesse far rendere al meglio – e possibilmente rendere vincente – il loro progetto basato, per quello che concerne il lato economico, sull’osservanza di rigidi parametri finanziari e, sul lato campo, su una doppia struttura dirigenziale e sulla sperimentazione di un sistema ibrido di scouting e di gestione dell’area sportiva.

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