Rinaldo Morelli

Inter-Bayern Monaco 2-2: l’architettura della sofferenza

L’Inter resiste. L’Inter colpisce. L’Inter avanza. Dentro un San Siro ribollente, la squadra di Simone Inzaghi costruisce l’ennesima prova di compattezza, lucidità e freddezza, eliminando un Bayern Monaco forse più brillante, ma mai davvero padrone del campo. Finisce 2-2, un pareggio che vale oro dopo il 2-1 dell’andata, frutto di una prestazione cinica, sofferta, perfettamente aderente all’identità che Inzaghi ha scolpito in questa squadra: una squadra che non muore mai.

Il primo tempo racconta di un Bayern Monaco volenteroso, aggressivo, ordinato nella pressione e generoso nel possesso palla. I bavaresi chiudono la prima frazione con il 61% di possesso e 9 tiri tentati, ma appena 0.58 expected goals (xG): un dato che, più di ogni altro, fotografa l’efficacia della fase difensiva nerazzurra. L’Inter, pur soffrendo, ha concesso solo tiri da posizione difficile, chiudendo ogni corridoio centrale e lasciando ai bavaresi solo qualche velleitario tentativo da fuori.

È stata la solita Inter europea: bassa, compatta, capace di leggere la profondità degli avversari e di risalire con pochi tocchi. Con Calhanoglu a gestire la prima costruzione e un Barella onnipresente nel riempire ogni vuoto tra le linee, la squadra di Inzaghi è riuscita anche a creare pericoli. La più chiara occasione del primo tempo arriva infatti da un calcio piazzato, con Acerbi dimenticato in area su una punizione di Dimarco: un’azione che ha generato uno 0.25 di expected assist (xA), la più alta produzione qualitativa del primo tempo nerazzurro.

Il secondo tempo si apre con un Bayern ancora più sbilanciato in avanti, e il gol di Kane – al minuto 53 – è figlio proprio di questa pressione costante. L’azione nasce da un’imbucata di Goretzka che coglie impreparata la retroguardia nerazzurra: Dimarco è troppo morbido nella marcatura, Sommer viene battuto da un diagonale pulito. La rete vale uno 0.45 xG, il più alto valore generato in tutta la gara dagli uomini di Kompany.

Ma il vero spartiacque della partita sono i tre minuti successivi. L’Inter reagisce con la lucidità delle grandi squadre. Su corner di Dimarco, una respinta imperfetta di Kimmich è sfruttata da Lautaro, che scarica il pareggio con la ferocia del leader: è la sua ottava rete in questa edizione della Champions, e il tiro vale 0.38 xG. Poco dopo, su un altro corner – questa volta di Calhanoglu – è Pavard a salire in cielo, sovrastando Kim e siglando il suo primo gol con la maglia nerazzurra. In totale, le due azioni da palla inattiva hanno generato 1.02 xG complessivi: numeri che certificano quanto l’Inter sia diventata una squadra devastante anche nei calci piazzati, grazie alla qualità dei battitori e ai movimenti coordinati in area.

La reazione del Bayern, a quel punto, è furiosa. Kompany butta nella mischia Gnabry e Coman, e il baricentro dei bavaresi si alza ancora. Proprio da un cross teso di Gnabry nasce il pareggio di Dier: un colpo di testa apparentemente pensato per una torre centrale, che invece sorprende Sommer e si infila all’incrocio. È un episodio con un valore xG inferiore a 0.10, a dimostrazione di quanto fosse improbabile che quel pallone finisse in porta. Ma in partite del genere, anche gli episodi contano.

Gli ultimi dieci minuti sono un assedio. Il Bayern chiude con 20 tiri totali (contro i 15 dell’Inter), ma appena 1.32 xG, con soli 6 tiri nello specchio: numeri che parlano di una produzione offensiva elevata in quantità, ma non in qualità. Sommer, autore di una parata su Kane nel finale, chiude con un post-shot xG evitato di +0.48, confermando la sua serata positiva, a dispetto del secondo gol subito.

L’Inter, invece, si conferma una squadra da Champions. Inzaghi, nel doppio confronto, ha gestito le partite con intelligenza e freddezza. Ha permesso ai suoi uomini di esprimere il massimo in termini di reazione emotiva, compattezza tattica e lucidità nei momenti chiave. Lautaro è stato il solito totem: oltre al gol, ha tenuto alta la squadra nei momenti difficili, ha combattuto su ogni pallone, ha distribuito gioco. Pavard ha vinto più duelli aerei di tutti (5), e ha impreziosito la prestazione con un gol da ex che pesa come una sentenza.

E così, per la seconda volta in tre anni, l’Inter è in semifinale. Ma stavolta non c’è il sapore dell’impresa casuale: c’è la solidità di un progetto tecnico, la continuità di rendimento europeo, la consapevolezza di una squadra che si sente pienamente all’interno dell’élite. E non è solo una questione sportiva: con la qualificazione, il club ha già incassato oltre 115 milioni di euro in premi UEFA, con la possibilità di toccare quota 140 in caso di finale. È il carburante per costruire il futuro. Un futuro che – come detto da Marotta – punta su investimenti mirati, sull’abbassamento dell’età media e su uno zoccolo duro di italiani da valorizzare.

Intanto, però, c’è un Bologna da affrontare. La stanchezza si fa sentire, lo sforzo emotivo è stato enorme. Ma anche se domenica i nerazzurri dovessero rallentare, non ci sarebbe da recriminare. Perché questa Inter è viva. È dentro le quattro grandi d’Europa. E ha tutto il diritto di continuare a sognare.

L’estinzione del tiro da fuori

C’era un tempo in cui la traiettoria secca di un tiro da fuori area era la soluzione più democratica del calcio: nessun bisogno di triangoli, superiorità numerica o corse in profondità. Bastava un pallone che rimbalzava al limite, un piede educato e un coraggio fuori dal comune. O, più spesso, il desiderio di sorprendere, rompere lo spartito. Oggi, però, quei tempi sembrano finiti. Nel calcio moderno, tirare da fuori è diventato quasi un atto di disobbedienza tattica. Ma com’è successo?

 

Il calo nei numeri: l’evidenza statistica

Secondo un’analisi pubblicata da Undici nel marzo 2024, nella stagione 2009/10 il 45% dei tiri in Premier League proveniva da fuori area. Oggi siamo al 32,9%. In Serie A, la percentuale è calata dal 49% al 37%. In Bundesliga e Ligue 1 le cifre sono simili, con una flessione costante su base annua. Ma non si tratta solo di tiri. Anche i gol segnati dalla distanza sono crollati. In Serie A 2023/24, solo il 9,1% delle reti è arrivato da fuori area. Dieci anni prima, erano il 15,3%.

Questi numeri segnalano una trasformazione strutturale. Non è una moda passeggera, ma il frutto di un’evoluzione profonda del gioco, a tutti i livelli: tecnico, tattico, culturale.

 

Gli expected goals e l’economia del rischio

Il primo colpevole, in ordine cronologico, è il dato degli Expected Goals.

Negli ultimi dieci anni, i modelli xG hanno avuto un impatto enorme nel modo in cui il calcio viene interpretato. Un tiro da fuori ha generalmente un valore xG molto basso: tra 0.02 e 0.05. Questo significa che su 20 tiri, statisticamente, ne entra uno. Un tiro da dentro l’area piccola? Anche 0.3 o 0.4 di xG. Sei, sette volte più probabile che finisca in rete.

Allenatori, analisti e direttori sportivi lo hanno capito molto bene. Perché sprecare un possesso con un tiro velleitario da 25 metri, quando si può continuare a costruire per cercare una chance più pulita, più redditizia? Il calcio moderno è diventato, anche, una questione di efficienza. E i tiri da fuori sono poco efficienti, almeno secondo la nuova grammatica analitica.

 

L’impatto tattico: dal tiki-taka al pressing

Parallelamente all’avvento dei dati, anche l’evoluzione tattica ha giocato un ruolo decisivo. Con il dominio delle squadre di posizione — Guardiola e i suoi epigoni — il calcio ha privilegiato la costruzione lenta, il dominio dello spazio, l’attacco posizionale. In questo contesto, il tiro da fuori è una rottura della struttura, una giocata “fuori spartito”. Un rischio che molti allenatori non vogliono correre.

Il pressing alto, poi, ha reso più difficile trovare tempo e spazio per calciare. Oggi i centrocampisti ricevono palla con un uomo addosso, e i difensori centrali leggono prima il corpo orientato al tiro che la possibilità di un filtrante. Solo i migliori riescono a trovare il tempo per calciare, e anche loro sono spesso costretti a forzare.

 

Il fattore portieri e la preparazione difensiva

Anche l’evoluzione dei portieri ha inciso. Oggi la tecnica dei numeri uno è più raffinata, la preparazione atletica più completa, la capacità di lettura più precoce. Molti allenatori preparano i propri portieri proprio su queste situazioni: posizione avanzata per accorciare lo specchio, lettura della parabola, reattività sulle conclusioni.

In parallelo, anche le difese si sono adattate. I giocatori schermano meglio la zona di tiro, i blocchi compatti a protezione della trequarti funzionano da deterrente. Il limite dell’area è una terra di mezzo ipercontrollata, una “zona morta” da cui è difficile liberare un tiro pulito.

 

L’impoverimento tecnico?

C’è chi sostiene che la scomparsa del tiro da fuori sia anche un segnale dell’impoverimento tecnico di certi ruoli.

I centrocampisti box-to-box sono meno frequenti, i registi hanno più compiti di rifinitura che di finalizzazione, e gli incursori — i vari Stankovic, Nainggolan, Lampard, Gerrard — sono un ricordo lontano. Oggi il centrocampista è prima di tutto ordinato, geometrico, posizionale. Il rischio, anche tecnico, è che non sappia più “spaccare la porta”. Certo, restano le eccezioni: Barella, Reijnders, Koopmeiners, Zielinski, Tonali prima della squalifica. Ma sono figure minoritarie.

E forse non è solo questione di piedi. È una questione di contesto: di libertà, di rischio, di licenza.

 

Il fascino del tiro da fuori e il suo significato simbolico

Il tiro da fuori era anche una questione di identità. Una dichiarazione d’intenti. Un modo per dire: “non servono 35 passaggi se puoi colpire ora”. Era l’arma dell’imprevedibilità, della frustrazione, della sfida. Un atto di insubordinazione.

Pensiamo a Pogba, al suo modo di caricare il destro con un gesto teatrale, oppure a Cristiano Ronaldo nei primi anni a Manchester. O ancora a Recoba, Seedorf, Stankovic, Gerrard, Riquelme. Erano giocatori che non solo potevano, ma dovevano tirare da fuori. Era parte del loro DNA.

Oggi questa componente simbolica è scomparsa. E forse, con essa, un pezzo del romanticismo del calcio.

 

Un uso selettivo? Le nuove frontiere del tiro da fuori

Tuttavia, non tutto è perduto. Alcuni analisti suggeriscono un uso strategico del tiro da fuori. Non come soluzione primaria, ma come variante. In contesti in cui la difesa è particolarmente bassa, dove l’area è intasata, o per sorprendere un portiere troppo alto.

Un esempio? Il Napoli di Spalletti, che nel 2022/23 ha segnato 12 gol da fuori area. Non per caso, ma per scelta. Zielinski, Lobotka, Kvaratskhelia erano tutti abili nel liberarsi e calciare. Un’arma usata con saggezza, mai con insistenza. Un altro esempio è la Serie B italiana: meno organizzazione, più caos, più spazio per provare. E più tiri da fuori.

 

Il tiro da fuori è un’arte in via d’estinzione?

Probabilmente sì, ma non è detto che debba sparire del tutto. Nel calcio delle percentuali, delle simulazioni, dell’ottimizzazione ossessiva, il tiro da fuori è un gesto quasi anarchico. Ma proprio per questo, oggi più che mai, può fare la differenza. Non per frequenza, ma per qualità. Non per quantità, ma per imprevedibilità.  Forse il futuro del tiro da fuori sta nella selettività — e nel talento.

In quei giocatori capaci di riconoscere il momento, di leggere lo spazio, di colpire con coraggio e precisione. Non sarà mai la soluzione dominante. Ma potrà ancora essere quella decisiva.

L’esultanza del calciatore: quando il gesto vale più della parola

Le esultanze dei calciatori sono sempre state uno degli aspetti più divertenti e talvolta anche controversi del calcio. Un momento che va ben oltre il gol, il quale si trasforma in un linguaggio universale che parla a tifosi, avversari e, non da ultimo, alla telecamera. Se un gol è il culmine di una tensione accumulata, l’esultanza è il suo sfogo, il brivido di chi ha appena scritto il proprio nome nella storia di una partita. Ma come si è evoluto il modo di festeggiare un gol?

Ricordiamo le esultanze iconiche, quelle che sono entrate nell’immaginario collettivo come simboli non solo di un gol, ma di un’epoca. Chi non ha in mente la “pazzia” di Tardelli al Mundial del 1982, quando dopo il suo splendido gol contro la Germania, corse a braccia aperte come se fosse riuscito a scoprire l’arcano del calcio? Quell’urlo, quella corsa, quel gesto sono diventati leggenda, trasmettendo un’emozione pura che ogni tifoso ha interiorizzato come parte di quella vittoria mondiale. E non possiamo non pensare a Diego Maradona, la cui esultanza dopo il famoso gol contro l’Inghilterra nel 1986 è un pezzo di storia del calcio: il “pugnetto” verso il cielo, il simbolo di un campione che sa di aver scritto un pezzo indelebile di leggenda.

Negli anni successivi, l’esultanza ha preso forme sempre più creative. Si è passati da semplici corse verso il pubblico a vere e proprie coreografie, come quella di Pierre-Emerick Aubameyang, che ha lanciato la sua esultanza in stile “giraffe” al Borussia Dortmund. E che dire della “robo-dance” di Crouch? Un gesto che più di tutti ha reso chiaro che il calcio non è solo tecnica, ma anche show e intrattenimento. Ma forse la più memorabile per originalità resta quella di Cristiano Ronaldo, che ha combinato l’eleganza del gesto con l’esplosività dell’emozione. Il suo “Siiii” urlato con le braccia spalancate, un segno di dominio assoluto, è diventato il marchio di fabbrica di un campione capace di dominare in campo e fuori.

Oggi, però, il panorama delle esultanze sembra essersi un po’ “appiattito”. La creatività che un tempo animava il campo sembra aver lasciato spazio a gesti più “moderati” o, in alcuni casi, fin troppo ripetitivi. I calciatori, pur mantenendo un certo fervore, sembrano preferire esultanze più contenute, spesso limitandosi a correre verso la telecamera e a fare una sorta di “dialogo” con essa, lanciando occhiate cariche di significato. La generazione dei “selfie” e dei social media ha infatti spostato l’attenzione dalle emozioni sfrenate del gol a una comunicazione che voglia più essere condivisa, come un messaggio subliminale rivolto al proprio seguito. Il “parlare alla telecamera” è diventato il nuovo modo di interagire con il pubblico. Non più corse scatenate, ma occhi che scrutano l’obiettivo, consapevoli che ogni gesto in campo può essere ripreso, condiviso e commentato in tempo reale.

Eppure, questo ritorno alla semplicità non deve essere visto come una perdita, ma come un’evoluzione. Il calcio è cambiato, e con esso anche la sua espressione. Oggi l’esultanza non è più solo un atto di gioia, ma anche un modo per costruire un legame diretto con la propria base di fan. Le esultanze dei calciatori sono diventate il loro “linguaggio del corpo” verso i tifosi, un modo per dire “ci sono, vi sento” in un mondo dove tutto è sempre più digitalizzato.

Ma noi, tifosi romantici, che ci ricordiamo ancora della corsa di Tardelli e dell’urlo di Maradona, non possiamo fare a meno di chiedere: dove sono finite quelle esultanze epiche, quelle che ti facevano sentire parte di qualcosa di unico? Forse, un po’ di follia, di creatività e di quel “sentirsi vivi” non guasterebbe nemmeno oggi.

Bayern-Inter 1-2, la partita camaleonte: Inzaghi piega Monaco con intelligenza e coraggio

Un’impresa europea in pieno stile nerazzurro. L’Inter espugna l’Allianz Arena dopo quattordici anni, infliggendo al Bayern Monaco la prima sconfitta casalinga in Champions dopo 22 partite e quattro stagioni. Il 2-1 finale, firmato da Lautaro Martinez e Davide Frattesi, ha il sapore delle grandi notti di coppa, con una squadra che ha saputo soffrire, colpire, e soprattutto adattarsi. È stato un match complesso, denso di momenti tattici diversi, quasi dieci partite in una sola. Inzaghi l’ha vinta con la testa prima ancora che con i piedi dei suoi uomini, sapendo leggere la contesa meglio di Kompany, e accettando di cambiare pelle più volte durante i novanta minuti.

 

Kompany sorprende tutti: fuori Müller, dentro Guerreiro in posizione ibrida, a uomo su Calhanoglu, dentro Olise e Sané sugli esterni in un 3-4-3 che in fase di pressione diventa un 4-2-3-1. Il portiere è Urbig, linea difensiva con Stanisic, Dier e Kim, centrocampo con Kimmich e Goretzka, laterali larghi Laimer e Guerreiro. In avanti Kane, sostenuto da Sané e Olise.

Inzaghi risponde con il classico 3-5-2: Sommer tra i pali, Pavard-Acerbi-Bastoni in difesa, Darmian e Carlos Augusto sulle corsie, Barella, Calhanoglu e Mkhitaryan in mezzo. Davanti la ThuLa: Lautaro e Thuram. Con Dumfries e Dimarco out, Inzaghi rinuncia a una delle sue fonti di ampiezza abituali e sceglie l’equilibrio.

 

Il primo tempo è uno studio reciproco, ma condotto secondo partiture diverse. Il Bayern parte fortissimo: pressing alto, attacchi a destra con Laimer e Olise, marcature strette e un’idea precisa – schiacciare l’Inter. Nei primi venti minuti il pallone è bavarese (51% di possesso, 7 tiri a 6), ma è l’intensità difensiva a impressionare: Guerreiro si incolla a Calhanoglu, Olise lavora fra le linee, Kane scende spesso a giocare.

L’Inter, però, non perde mai la testa. Anche quando rischia – come sul palo di Kane al 26’ – mantiene l’ordine. La difesa non sale, i mediani si stringono, Lautaro lavora da equilibratore. E appena la pressione cala, i nerazzurri emergono: al 38’, su una splendida azione avviata da Bastoni e rifinita da Thuram, Lautaro infila Urbig con un colpo d’esterno perfetto. Gli xG nel primo tempo raccontano bene l’equilibrio: 0.80 per il Bayern, 0.45 per l’Inter. Il gol nasce dall’unico tiro in porta dei nerazzurri nel primo tempo.

Nella ripresa cambia tutto. Il Bayern tiene palla per il 67% del tempo, tira 13 volte contro le 4 dell’Inter e produce 1.85 xG contro 0.46. Ma qui emerge la vera anima della squadra di Inzaghi: compatta, verticale, cinica. Sommer è decisivo, Bastoni e Acerbi reggono contro tutto, Barella è ovunque. Il pari di Müller all’85’ sembra l’anticamera della beffa, ma l’Inter non si piega.

Tre minuti dopo, su contropiede iniziato da Barella e rifinito da Carlos Augusto, arriva l’inserimento perfetto di Frattesi: 2-1. È l’istantanea del match. Il Bayern manovra, ma è l’Inter a colpire. L’elasticità mentale dei nerazzurri è totale: alternano fasi di catenaccio a uscite tecniche, affidano la regia al loro portiere (Sommer partecipa all’azione del raddoppio) e si affidano ai duelli individuali.

A livello statistico, l’Inter completa l’89% dei passaggi nel secondo tempo (contro l’81% del Bayern), vince più contrasti (19 a 18), ed è letale quando serve: 1.60 xA (assist previsti) nella ripresa contro lo 0.44 dei tedeschi. Nonostante un solo tiro in porta in più, il Bayern ha un xGOT (Expected Goals on Target) di 1.05, l’Inter 0.95. La differenza l’ha fatta l’efficacia.

 

L’Inter ha saputo interpretare ogni fase del match con lucidità. Ha sofferto, ha saputo attendere, ha colpito con classe e sangue freddo. Lautaro ha firmato il settimo gol in 10 partite di Champions, Frattesi ha ribadito la profondità della rosa, Sommer ha tenuto a galla la squadra nei momenti più complicati. Inzaghi ha vinto la sfida con Kompany cambiando poco, ma bene: tre sostituzioni intelligenti, una lettura da tecnico esperto e la capacità di “sentire” la partita.

Il 2-1 dell’Allianz Arena è un manifesto dell’Inter europea: solida, camaleontica, affamata. Ma è solo l’andata. San Siro freme. E l’Inter sa che per completare l’opera servirà ancora una notte perfetta.

Kevin De Bruyne e la fine di un’era luminosa

C’è un momento, nei grandi cicli sportivi, in cui il silenzio dice più delle parole. È quello in cui ti rendi conto che non tornerà più. Che anche le cose belle, luminose, rivoluzionarie, hanno un termine. Il Manchester City di Guardiola, per esempio, ha avuto tanti volti. Ma ne ha avuto soprattutto uno, il più chiaro, il più riconoscibile. Quello con la maglia numero 17, i capelli rossi spettinati dal vento, il piede destro a spaccare le partite in due. Kevin De Bruyne.

A fine stagione se ne andrà. Non sappiamo ancora dove: si parla di MLS, Arabia Saudita, suggestioni che sembrano premiare più la serenità del tramonto che l’ossessione per l’ennesima vetta. Ma quel che è certo è che lascerà il City. Dopo dieci anni. E che niente sarà più come prima.

 

Una stella silenziosa

Quando nel 2015 il Manchester City spese circa 76 milioni di euro per riportarlo in Inghilterra dal Wolfsburg, qualcuno storceva il naso. Troppo caro, troppo fragile, troppo discontinuo. Era il Kevin che il Chelsea non aveva capito, che Mourinho aveva accantonato, che la Premier non aveva ancora adottato.

Dieci anni dopo, lo salutano sei Premier League, cinque Coppe di Lega, due FA Cup, una Champions League e un totale di oltre 180 tra gol e assist in partite ufficiali. Ma, più di ogni trofeo o statistica, resterà il modo in cui ha cambiato il calcio del City. E forse della Premier intera.

De Bruyne non è stato solo un centrocampista offensivo. È stato un regista avanzato, un esterno a piede invertito, un mezzofondista che correva tra le linee, un numero 10 che riscriveva la geometria del campo. L’unico, forse, in grado di rendere il gioco posizionale di Guardiola meno prevedibile, più verticale, più umano. Più inglese.

 

Il gesto tecnico come dichiarazione d’intenti

Kevin De Bruyne ha incarnato un’idea precisa di calcio. Non quella del fraseggio ossessivo fine a sé stesso, ma quella del passaggio tagliente, che rompe le linee, che ti apre la porta senza bussare. Le sue traiettorie diagonali da destra verso il centro sono diventate una firma, un gesto riconoscibile come il gancio di un pugile o il rovescio di Federer.

Pochi giocatori nella storia hanno avuto il suo talento nella rifinitura. Secondo Opta, è stato per anni tra i primi in Europa per passaggi chiave, expected assists e creazione di occasioni. Ma De Bruyne non era solo numeri. Era ritmo. Era tempo. Era la capacità di far accelerare una squadra in un attimo, di trasformare un possesso orizzontale in una stilettata verticale.

 

La sinfonia e il suo direttore

Nel grande romanzo del City di Guardiola, ci sono pagine dedicate a Silva, Agüero, Kompany, Gündogan. Ma il capitolo più lungo è quello di Kevin. Perché è stato il giocatore che meglio ha incarnato la sintesi tra controllo e improvvisazione. Il più ordinato dei creativi. Il più creativo degli ordinati.

Guardiola ne ha fatto il suo perno anche nei momenti difficili. Quando il City cercava di sbloccarsi in Champions. Quando la squadra sembrava diventare troppo meccanica. Quando serviva un guizzo per rompere l’inerzia. C’era sempre lui, con le sue corse a testa bassa e quel cross “a banana” verso il secondo palo che sembrava riscrivere le regole del tempo e dello spazio.

 

L’ultima versione di sé

Negli ultimi anni, Kevin ha cambiato pelle. È diventato più centrale, più riflessivo. Ha corso meno, ma ha pensato di più. Guardiola lo ha impiegato anche in coppia con Rodri, in una mediana atipica, o alle spalle di Haaland, a orchestrare gli inserimenti di Bernardo, Foden e Grealish.

Nella stagione del Treble (2022/23), è stato determinante. Senza il suo contributo, senza i suoi lampi di intuizione e leadership, probabilmente quella Champions non sarebbe mai arrivata. Eppure, ha sempre tenuto un profilo basso. Non ha mai cercato la copertina. Non è mai sembrato interessato a essere il volto del progetto. Lo è diventato per merito, non per volontà.

 

Cosa resta, dopo di lui

L’addio di De Bruyne segna qualcosa di più della fine di un rapporto sportivo. È la conclusione di un’epoca in cui il Manchester City era ancora una squadra “umana”, fatta di giocatori che avevano costruito la propria identità dentro al club. Oggi il City è una macchina sempre più perfetta, sempre più profonda, ma sempre più remota.

Chi prenderà il suo posto? Foden ha talento, Gvardiol è il futuro, Nunes e Kovacic portano dinamismo. Ma nessuno ha quella miscela irripetibile di cervello, cuore e piedi. Nessuno può replicare quel calcio di velluto con la lama dentro.

 

L’ultima corsa

C’è una scena, nel film “Il sapore della ciliegia” di Kiarostami, in cui un uomo cammina lentamente lungo una collina, con il sole che tramonta alle sue spalle. Non succede nulla, eppure è il momento più intenso del film. Forse l’addio di Kevin De Bruyne è così. Silenzioso, elegante, inevitabile.

Già si parla di statue, di tributi, di eredità. Guardiola ha detto che merita un monumento. E probabilmente ce ne sarà uno, in bronzo, a immortalare il gesto che meglio lo rappresenta: la palla colpita d’interno destro, il busto leggermente inclinato, lo sguardo che ha già visto ciò che noi capiremo solo due secondi dopo.

Quando se ne andrà, Kevin De Bruyne porterà via con sé un pezzo di calcio moderno. Un calcio che sapeva essere geometria e ispirazione, logica e magia. E anche se torneremo a vedere cross, filtranti e assist, sapremo sempre riconoscere chi li ha fatti prima, meglio, con più grazia.

Perché certi calciatori non finiscono davvero. Si dissolvono nel gioco, e da lì non escono più.

Germania-Italia 3-3, una Nazionale, due volti

Alla fine resta un pareggio. Ma anche una sensazione: quella di un’occasione mancata, di una Nazionale che si è ricordata troppo tardi di essere in partita. A Dortmund, la Germania e l’Italia hanno costruito due tempi opposti, speculari, quasi schizofrenici. Il primo è stato dominio assoluto dei padroni di casa, il secondo una rimonta che per poco non ha assunto i contorni dell’epica. Finisce 3-3, con tre gol per parte distribuiti in due atti diversi, come due squadre diverse in campo. La Germania prenota le Final Four, l’Italia resta fuori. Spalletti si porta a casa segnali incoraggianti ma anche un primo tempo che è già materiale da autocritica.

Le formazioni: Nagelsmann a specchio, Spalletti sceglie la fisicità

Entrambi i tecnici scelgono il 3-4-2-1, ma con intenti diversi. Nagelsmann sorprende proponendo una difesa a tre con Schlotterbeck largo a sinistra, liberando così Mittelstädt in spinta costante. In mezzo al campo, Goretzka e Stiller garantiscono densità, mentre Musiala e Sané agiscono alle spalle della punta Kleindienst, abile sia a cucire che a attaccare la profondità.

Spalletti risponde con un’Italia muscolare, pensata per resistere nei primi 20 minuti e colpire in ripartenza. In difesa tornano Gatti e Buongiorno con Bastoni, mentre Di Lorenzo e Udogie presidiano le corsie. A centrocampo Ricci prende il posto di Rovella, con Tonali e Barella interni. Davanti, Maldini agisce a supporto dell’unica punta Kean, preferito a Retegui (assente) e a Raspadori.

L’idea dell’Italia è chiara: coprire il campo in verticale, chiudere le linee centrali, sfruttare le spalle larghe di Kean e il passo lungo di Maldini. Ma il piano salta subito.

Primo tempo: dominio assoluto tedesco, Italia impalpabile

Il primo tempo si gioca su un solo binario. La Germania aggredisce, l’Italia subisce. Al 45’, i numeri raccontano la storia: 18 tiri a 3, 64% di possesso palla, 6 tiri nello specchio contro zero, 25 tocchi in area italiana contro 4. Un dato: gli Expected Goals (xG) sono 2.94 per la Germania, appena 0.13 per l’Italia. La squadra di Spalletti è schiacciata nella propria metà campo, incapace di risalire. Ricci è annullato dalla densità tedesca, Barella e Tonali affondano in mezzo a Sané e Musiala, mentre Kean non riceve palloni giocabili.

La rete dell’1-0 arriva al 30’ su rigore, procurato da Kleindienst e trasformato da Kimmich. Il 2-0 è figlio di un blackout collettivo: Donnarumma dopo un grande intervento esce dai pali per urlare alla difesa, Kimmich batte subito l’angolo e Musiala insacca senza opposizione. Il terzo gol arriva ancora su palla laterale: cross di Kimmich, colpo di testa di Kleindienst che sovrasta Di Lorenzo. È una mattanza tecnica e mentale.

L’Italia non riesce a uscire: Gatti è in costante affanno, Maldini tocca tre palloni in 45 minuti, Ricci perde ogni duello. Spalletti aveva chiesto resistenza per venti minuti: dopo trenta, è già sotto di due. Dopo quarantacinque, è 3-0.

Secondo tempo: rivoluzione di Spalletti, reazione d’orgoglio

La ripresa è un’altra partita. Spalletti cambia subito: fuori Gatti e Maldini, dentro Politano e Frattesi. Cambia anche l’atteggiamento. L’Italia si alza, torna a quattro dietro con Di Lorenzo accentrato, e sfrutta le fasce con Politano e Udogie. Frattesi inserisce gamba e pressione, Barella si alza sulla linea di Kean. Il baricentro sale, il pressing funziona, la Germania inizia ad arretrare.

Il primo gol azzurro nasce da un errore in uscita di Kimmich, approfittato da Kean con freddezza. Sul secondo, è Raspadori – appena entrato per Tonali – a rompere la linea tedesca con un assist perfetto per Kean, che salta Tah e infila Baumann. Al 70’ è 3-2, e la partita è improvvisamente aperta.

Al 73’, l’Italia trova un rigore che potrebbe valere il pareggio: Di Lorenzo viene steso in area da Schlotterbeck. Marciniak assegna, ma poi il VAR lo richiama: decisione revocata. Episodio dubbio, forse decisivo. Poco dopo, un nuovo tocco di mano in area – stavolta netto – regala un altro rigore: Raspadori dal dischetto fa 3-3. A quel punto l’Italia è tutta in avanti, Spalletti toglie anche Kean per Lucca, ma la rimonta si ferma lì.

Il secondo tempo fotografa l’inversione totale dei dati: l’Italia pareggia il possesso (50%-50%), vince nei tocchi in area (11 a 3), negli xG (1.22 a 0.30), e nei tiri (6 a 4). È un’altra squadra, per intensità, qualità e lucidità. Troppo tardi.

Il peso dei primi 45 minuti

L’Italia ha mostrato due volti. Il primo, quello timoroso, mal posizionato, travolto da una Germania intensa e ben allenata. Il secondo, quello coraggioso, reattivo, capace di ribaltare l’inerzia tattica e psicologica del match. Ma nel calcio internazionale le partite durano novanta minuti, e i blackout si pagano. L’eliminazione brucia perché figlia soprattutto di quei primi 45’, nei quali l’Italia ha concesso tutto e ottenuto nulla.

La rimonta nella ripresa ha salvato l’onore, ma non il risultato. E ora Spalletti deve trovare l’equilibrio tra le due versioni della sua squadra. La strada verso il Mondiale 2026 comincia da Oslo, contro Haaland. Non sarà semplice. Ma dopo Dortmund, l’Italia ha imparato – di nuovo – che cominciare a giocare dal primo minuto non è una variabile, ma una necessità.

Italia-Germania 1-2, un viaggio a due velocità

È stata una partita strana”, ha detto Sandro Tonali nel post-partita. Una definizione perfetta, quasi definitiva, che riesce a spiegare tanto senza dire troppo. Una partita in cui l’Italia è sembrata se non migliore, almeno più brillante e per lunghi tratti più convinta, e che invece si è chiusa con una rimonta tedesca tanto lineare quanto chirurgica. Un altro episodio dentro una transizione lunga, difficile da leggere, che si chiama “ricostruzione”.

 

Un primo tempo da squadra vera

Luciano Spalletti aveva immaginato la partita in un certo modo, e nei primi 45 minuti ci era riuscito. L’Italia è scesa in campo con un 3-5-1-1 molto fluido, in cui le mezzali Tonali e Barella svolgevano il doppio compito di raccordo e aggressione, mentre Raspadori, ibrido tra seconda punta e trequartista, doveva galleggiare tra le linee. Politano, scelto come esterno destro a tutta fascia, è stato il vero ago della bilancia: spesso isolato in 1v1 con Raum, ha rappresentato la prima e più efficace valvola di sfogo.

Il gol del vantaggio è stato il manifesto dell’idea di Spalletti: riconquista bassa, cambio gioco di Bastoni sulla destra, combinazione Barella-Politano e arrivo di Tonali in rimorchio. Un’azione da manuale, pensata per sfruttare i limiti strutturali del 4-2-3-1 tedesco – in particolare l’altezza dei terzini in fase di possesso.

Per tutta la prima frazione, l’Italia ha lasciato palla alla Germania (41% il possesso finale), ma senza mai subire realmente. Musiala è rimasto ai margini, Sané spento, e il pressing tedesco – come contro la Francia a novembre – è stato neutralizzato dal dinamismo del centrocampo italiano e da un’uscita palla pulita, spesso diretta, ma non improvvisata. Il dato degli xG nel primo tempo (0.47 vs 0.39) riflette una sostanziale parità, ma l’Italia ha creato le occasioni migliori.

 

Il crollo di struttura e concentrazione

Il secondo tempo si è giocato su un’altra frequenza, e non solo per merito della Germania. Nagelsmann ha corretto tre dettagli chiave: ha inserito Schlotterbeck per Raum per stabilizzare la fase difensiva, ha spostato Sané a sinistra e Musiala al centro, ma soprattutto ha mandato in campo Kleindienst, centravanti con doti aeree opposte rispetto a Burkardt.

Quel cambio – apparentemente minimo – ha messo a nudo una delle debolezze strutturali dell’Italia: la difesa delle palle inattive e dei duelli aerei centrali. Su un cross perfetto di Kimmich, Kleindienst ha dominato Bastoni nel cuore dell’area per l’1-1. Il secondo gol, firmato da Goretzka su angolo, è arrivato con dinamiche simili.

L’Italia ha mostrato una buona capacità di reazione dopo l’1-1: due occasioni quasi in fotocopia firmate da Kean e Raspadori, entrambe su rifinitura di Tonali. Ma sono state fiammate più che soluzioni strutturate. Dopo i cambi, la squadra ha perso brillantezza e soprattutto connessioni: l’ingresso di Bellanova per Politano, ad esempio, ha sbilanciato la catena di destra, portando all’angolo da cui è nato il gol decisivo. A sinistra, l’infortunio di Calafiori ha complicato ulteriormente l’ultima fase di partita.

 

Tonali, il nuovo centro dell’universo azzurro

In mezzo a tutto questo, la nota più luminosa resta Sandro Tonali. Gol a parte, ha dominato il centrocampo: 2 occasioni create, 87% di precisione nei passaggi, 3 dribbling riusciti, 7 duelli vinti. Non è solo un incursore, non è solo un interditore: è un centrocampista completo, in grado di cambiare ritmo e direzione alla partita.

Il dibattito sul ruolo di Tonali – regista basso come al Newcastle o mezzala d’assalto come ieri – può aprire scenari nuovi. Un’Italia con Tonali-Barella come doppio motore e magari un terzo centrocampista più offensivo (Frattesi?) potrebbe diventare più verticale e meno dipendente dalle fasce.

 

Questione di centimetri e continuità

Non si può non tornare su un problema ormai ricorrente: i gol subiti di testa. Kleindienst e Goretzka hanno punito una linea difensiva troppo “gentile”, troppo poco dominante in area. Il tentativo di inserire Bellanova per alzare i centimetri ha avuto l’effetto opposto: l’Italia ha perso controllo e ha subito il corner decisivo da una sua palla persa.

Nella lettura di Spalletti – “ci è mancata continuità” – c’è il cuore del problema: questa Italia sa accendersi, ma non sa ancora gestire l’energia. Alterna momenti di grande lucidità a pause inspiegabili, come se si spegnesse. E in partite di questo livello, le pause si pagano.

 

Una sconfitta che non è una condanna

L’Italia ha perso, ma non è stata dominata. Ha subito due gol evitabili, ha mostrato margini di crescita evidenti e ha tenuto testa a una Germania più avanti nel percorso. Spalletti, con realismo, ha detto: “Possiamo vincere anche noi a Dortmund”. Non è solo una frase per i microfoni: il campo ha mostrato una squadra che può competere.

Il ritorno sarà difficile – serve vincere con due gol di scarto in casa tedesca – ma non impossibile. A patto di non sbagliare i dettagli, di crescere nella gestione e, soprattutto, di non disperdere quel che di buono si è visto. Perché, in fondo, questa “partita strana” potrebbe essere l’inizio di qualcosa.

Ji-Gi Dilemma: il nuovo volto del Messico tra eredità e futuro

Javier Aguirre lo ha definito un “problema fortunato”, ma in realtà sembra qualcosa di più. Il Messico si trova oggi davanti a un bivio tecnico ed emotivo: scegliere tra Raúl Jiménez e Santiago Giménez non è solo una questione tattica, ma un confronto generazionale, una riflessione collettiva sul senso dell’identità e del tempo nel calcio.

Da una parte c’è Jiménez, il veterano, l’uomo che ha visto tutto: l’ascesa con il Wolverhampton, il trauma cranico che ne ha segnato la carriera, la lenta e dolorosa risalita fino a ritrovare sé stesso in Premier League con la maglia del Fulham. Dall’altra c’è Giménez, la promessa che ora è realtà: l’Europa che lo ha accolto prima come scommessa al Feyenoord, poi come investimento del Milan. Due storie che si intrecciano nel punto più delicato della narrazione calcistica messicana: chi siamo stati, chi vogliamo essere.

Il “Ji-Gi Dilemma” – così l’ha ribattezzato con efficace ironia la stampa messicana – non è solo una questione di forma o di numeri. Giménez, classe 2001, ha segnato 45 gol in Eredivisie e ha già mostrato lampi del suo talento anche in Serie A, pur tra le difficoltà strutturali del Milan. Jiménez, dieci gol in Premier quest’anno, è il simbolo di una resilienza rara, quasi commovente. E allora che si fa? Si gioca sull’esperienza o si scommette sulla freschezza?

Aguirre ha tentato di svicolare con una risposta diplomatica: “Possono giocare insieme. La questione non mi toglie il sonno”. Ma il sonno, in fondo, è proprio il tema centrale: dormire sonni tranquilli è ciò che il calcio messicano non può più permettersi. L’onta dell’eliminazione al primo turno in Qatar 2022 pesa ancora. Le scelte di Martino – oggi ancora convinto di aver fatto bene a portare un Raúl fuori forma – sono diventate ferite aperte.

Eppure Giménez oggi è probabilmente il miglior calciatore messicano. Il salto di qualità c’è stato, ma non basta. La Copa América dell’anno scorso è stata un fallimento personale e collettivo. Zero gol, eliminazione nella fase a gironi. Il talento, da solo, non basta. Serve tempo. Serve fiducia. Serve anche – come ha ammesso lo stesso Santi – “una concorrenza sana”, di quelle che ti fanno alzare il livello solo per non restare indietro. E qui Jiménez, con la sua ombra lunga, è ancora il punto di riferimento.

Il nodo è tutto qui: non si tratta solo di scegliere un 9 titolare. Si tratta di capire quale Messico vogliamo vedere. Un Messico che si affida ancora al volto rassicurante del passato o uno pronto a rischiare, a cadere magari, ma a farlo con gli occhi puntati verso l’alto? La Nations League è solo un banco di prova, ma il vero obiettivo resta il Mondiale casalingo del 2026.

Nel frattempo, questa strana abbondanza in attacco – un’anomalia per El Tri, che da Chicharito in poi ha faticato a trovare certezze davanti – ci racconta anche un altro aspetto: forse, per una volta, il Messico può permettersi di non scegliere subito. Forse la soluzione, almeno per ora, è proprio nel dilemma stesso.

Perché un dilemma, quando è benedetto dal talento, può essere anche una dichiarazione di potenza.

Atalanta-Inter 0-2, la maturità dei campioni

L’Inter di Simone Inzaghi ha mandato un messaggio chiaro alla Serie A: il titolo passa per Milano. Con la vittoria per 2-0 a Bergamo, i nerazzurri hanno dimostrato ancora una volta la loro superiorità contro l’Atalanta, allungando a otto la striscia di successi consecutivi contro la squadra di Gasperini. Il gol di Carlos Augusto e la firma di Lautaro Martinez hanno sigillato tre punti fondamentali, che portano l’Inter a +3 sul Napoli e a +6 sulla stessa Atalanta, con lo scudetto che ora pende decisamente verso la sponda milanese.

Il controllo della partita e l’occupazione degli spazi

L’Inter ha iniziato il match con un atteggiamento deciso, dominando la costruzione del gioco grazie alla precisione nei passaggi (86% di successo nel primo tempo contro l’82% della Dea) e alla capacità di trovare uomini liberi tra le linee. Il modulo di Inzaghi, un 3-5-2 fluido, ha funzionato alla perfezione grazie all’intelligenza tattica di Barella e Calhanoglu, che hanno gestito la manovra e impedito alla pressione atalantina di prendere il sopravvento.

L’Atalanta, invece, ha scelto un approccio più attendista rispetto al solito, lasciando all’Inter il controllo del possesso nel primo tempo (53% contro il 47%). Una strategia dettata dai precedenti tra le due squadre: nelle ultime tre sfide, la Dea aveva incassato 10 gol senza segnarne neanche uno. Ma il piano di Gasperini non ha pagato, perché la squadra ha sofferto la fisicità e il dinamismo di Thuram e Lautaro, il cui movimento senza palla ha spesso mandato in crisi la difesa bergamasca.

Un primo tempo di studio e il palo di Thuram

Nei primi 45 minuti, l’Inter ha cercato di sfruttare la verticalità di Thuram per attaccare la profondità, e proprio il francese ha avuto la prima grande occasione del match. Al 7’, dopo un’ottima combinazione con Lautaro, ha saltato Hien con una progressione potente e ha calciato sul palo interno, con Carnesecchi battuto. L’Atalanta ha risposto con un colpo di testa di Pasalic al 19’, deviato magistralmente da Sommer. Ma, statisticamente, il primo tempo è stato bloccato: l’Inter ha prodotto uno 0.67 di xG contro lo 0.41 della Dea, a conferma di un match giocato più sul filo dell’equilibrio che delle occasioni nitide.

La svolta nella ripresa: l’incornata di Carlos Augusto

La partita è cambiata all’inizio del secondo tempo. Dopo sei minuti di interruzione per il malore di un tifoso sugli spalti, la concentrazione dell’Atalanta è calata e l’Inter ha sfruttato il momento. Al 55’, su un calcio d’angolo di Calhanoglu, Carlos Augusto ha bruciato la marcatura di Kolasinac e ha insaccato di testa il gol del vantaggio. Un’azione da manuale, resa possibile dall’abilità del brasiliano nei tempi di inserimento e dalla capacità dell’Inter di sfruttare al massimo i calci piazzati.

La rete ha certificato la superiorità fisica e mentale dei nerazzurri, che nella ripresa hanno aumentato l’intensità e chiuso ogni spazio all’Atalanta. Il dato sulla xG del secondo tempo (1.78 per l’Inter, appena 0.26 per la Dea) racconta perfettamente lo sbilanciamento del match dopo il vantaggio ospite.

Lautaro spegne le speranze della Dea

Gasperini ha tentato di ribaltare l’inerzia inserendo De Ketelaere, Maldini e Samardzic, ma senza risultati concreti. L’Inter, con un Acerbi in versione highlander – 37 anni e ancora dominante in marcatura su Retegui –, ha blindato la propria area, vincendo il 75% dei contrasti difensivi e lasciando l’Atalanta senza sbocchi offensivi.

L’espulsione di Ederson all’82’ ha chiuso virtualmente i giochi e otto minuti dopo Lautaro ha messo il sigillo alla partita. Servito da Barella, il capitano interista ha infilato Carnesecchi con un diagonale chirurgico, siglando il suo 19° gol stagionale. Un gol che vale più di tre punti, perché lancia l’Inter in fuga e costringe Napoli e Atalanta a inseguire.

Il valore dell’esperienza

A fare la differenza, ancora una volta, è stata la maturità dell’Inter, una squadra che sa vincere le partite decisive. La gestione della gara dopo il vantaggio è stata esemplare, con i nerazzurri capaci di abbassare i ritmi e colpire in contropiede. Inzaghi ha dimostrato di essere un maestro nel preparare questo tipo di sfide, e lo dimostrano anche i numeri: nelle ultime nove partite contro l’Atalanta, ha collezionato otto vittorie e un pareggio.

Carlos Augusto, con la sua versatilità e la sua incisività negli ultimi metri, si è confermato un’arma preziosa per il tecnico piacentino. Con tre gol e quattro assist stagionali, il brasiliano si sta rivelando molto più di una semplice alternativa a Dimarco. La sua prestazione da 7 in pagella contro l’Atalanta – 43 tocchi, 4 duelli vinti, 2 passaggi chiave – è solo l’ennesima conferma.

Uno scudetto ormai indirizzato?

Con questa vittoria, l’Inter manda un segnale forte al campionato. I +3 sul Napoli non sono ancora una sentenza, ma con una differenza reti di +38 contro il +22 degli azzurri, i nerazzurri hanno un vantaggio significativo anche in caso di arrivo a pari punti. Il rischio di uno spareggio è ancora teorico, ma Inzaghi e i suoi sanno che ogni partita può essere decisiva.

La notte di Bergamo si chiude con due immagini simboliche: Lautaro che esulta con il pugno alzato e Gasperini che lascia il campo espulso, frustrato dall’ennesima occasione sprecata. L’Inter ha ancora nove battaglie davanti a sé, ma ha già dimostrato di avere le carte in regola per vincerle tutte.

Pressing, intensità e Donnarumma: il PSG doma il Liverpool e passa ai quarti

Passa il Paris Saint-Germain, ma il Liverpool esce dalla Champions League con la consapevolezza di aver giocato una partita di altissimo livello, in una sfida che ha incarnato tutta l’intensità e la qualità della massima competizione europea. L’equilibrio tra andata e ritorno ha reso questa doppia sfida un manifesto del calcio moderno: ritmo forsennato, transizioni rapide e una dose di spettacolarità che ha reso il confronto memorabile. Alla fine, a fare la differenza sono stati i dettagli: il PSG ha saputo capitalizzare al meglio il proprio momento, mentre il Liverpool ha pagato la propria imprecisione e, soprattutto, l’eroica prestazione di Gianluigi Donnarumma.

La partita è iniziata con le stesse formazioni della gara d’andata, un segnale della fiducia di entrambi gli allenatori nel piano tattico impostato. Il Liverpool si è schierato con il suo consolidato 4-2-3-1, affidandosi a Salah, Szoboszlai e Diaz dietro Jota, sostenuti dalla coppia di centrocampo formata da Gravenberch e Mac Allister. La linea difensiva, con Van Dijk e Konaté al centro, Robertson e Alexander-Arnold sulle fasce, e Alisson tra i pali, ha confermato l’identità della squadra. Il PSG ha risposto con il 4-3-3, con Donnarumma in porta, Hakimi e Mendes terzini, Marquinhos e Pacho centrali. A centrocampo Vitinha, Neves e Ruiz hanno fornito equilibrio e copertura, mentre in avanti l’intercambiabilità di Dembélé, Barcola e Kvaratskhelia ha rappresentato la principale arma offensiva dei francesi.

I primi minuti sono stati un assalto furioso del Liverpool, che ha spinto il PSG dentro la propria area. Salah, apparso molto più attivo rispetto all’andata, ha costretto Mendes a un salvataggio in extremis e poco dopo ha sfiorato il gol con un sinistro a giro. Ma proprio nel momento migliore dei Reds, è stato il PSG a trovare il vantaggio con una giocata di grande qualità: Mendes ha trovato un filtrante che ha tagliato fuori sette avversari, Barcola ha servito Dembélé, e l’esterno francese ha approfittato di una respinta corta di Konaté per battere Alisson. Era il dodicesimo minuto e l’1-0 parziale riequilibrava la doppia sfida.

Il Liverpool ha provato a reagire, ma si è trovato davanti un Donnarumma in serata di grazia. Il portiere italiano ha respinto un tiro di Konaté con una parata plastica, mentre dall’altra parte Alisson ha dovuto chiudere su Barcola, lanciato in porta da Kvaratskhelia. Se il primo tempo è stato caratterizzato da un’intensità incredibile, con una qualità di palleggio eccezionale in spazi stretti, nella ripresa il Liverpool ha aumentato la pressione, costringendo il PSG a difendersi con ordine. La squadra di Slot ha prodotto più occasioni, ma ha visto annullarsi un gol di Szoboszlai per fuorigioco e ha colpito il palo con Quansah, ancora una volta in offside.

Dal punto di vista statistico, i numeri confermano il dominio del Liverpool: nei tempi regolamentari i Reds hanno chiuso con un xG complessivo di 1.56 contro lo 0.13 del PSG nella ripresa, con 18 tiri totali contro i 3 degli avversari, 22 tocchi in area contro 4 e un possesso palla che è cresciuto fino al 53%. Tuttavia, ogni tentativo si è infranto su Donnarumma, che ha effettuato almeno tre parate decisive negli ultimi venti minuti. Il PSG ha provato a resistere con le transizioni, ma ha sofferto la pressione avversaria, riuscendo a creare pericoli solo nel finale con Kvaratskhelia e Dembélé.

Nei supplementari, l’inerzia del match ha continuato a favorire il Liverpool, ma il PSG ha trovato qualche occasione in più. Doue ha sfiorato il gol con una giocata individuale, mentre Alisson si è opposto a un diagonale di Dembélé. Alla lotteria dei rigori, il PSG ha dimostrato maggiore freddezza: Salah ha segnato il primo per il Liverpool, ma poi Donnarumma ha neutralizzato i tiri di Nunez e Jones, permettendo a Doue di sigillare la qualificazione. A differenza di Alisson, che ha solo sfiorato i tiri avversari, il portiere italiano ha mostrato riflessi straordinari e un’incredibile capacità di leggere le intenzioni degli avversari.

La vittoria del PSG è legittimata dalla resilienza della squadra di Luis Enrique, che ha saputo soffrire nei momenti più difficili e ha sfruttato al meglio le proprie occasioni. Tuttavia, il Liverpool può recriminare per le tante chance create e non concretizzate. Le statistiche finali raccontano di una partita dominata per lunghi tratti dai Reds (xG complessivo di 1.64 contro 1.97, 11 tiri in porta contro 4 nei supplementari), ma alla fine la differenza l’ha fatta un Donnarumma in versione eroica.

L’uscita del Liverpool rappresenta un colpo duro per le ambizioni della squadra di Slot, che ha mostrato qualità e intensità, ma è mancata nei dettagli. Per il PSG, invece, è una qualificazione che conferma la crescita del gruppo e la capacità di affrontare con maturità le difficoltà. Ai quarti di finale, la sfida più probabile sarà contro l’Aston Villa, un confronto che metterà ulteriormente alla prova la squadra di Luis Enrique. Ma se la serata di Anfield ha insegnato qualcosa, è che questo PSG è pronto a lottare fino alla fine.