C’è un momento, nei grandi cicli sportivi, in cui il silenzio dice più delle parole. È quello in cui ti rendi conto che non tornerà più. Che anche le cose belle, luminose, rivoluzionarie, hanno un termine. Il Manchester City di Guardiola, per esempio, ha avuto tanti volti. Ma ne ha avuto soprattutto uno, il più chiaro, il più riconoscibile. Quello con la maglia numero 17, i capelli rossi spettinati dal vento, il piede destro a spaccare le partite in due. Kevin De Bruyne.
A fine stagione se ne andrà. Non sappiamo ancora dove: si parla di MLS, Arabia Saudita, suggestioni che sembrano premiare più la serenità del tramonto che l’ossessione per l’ennesima vetta. Ma quel che è certo è che lascerà il City. Dopo dieci anni. E che niente sarà più come prima.
Una stella silenziosa
Quando nel 2015 il Manchester City spese circa 76 milioni di euro per riportarlo in Inghilterra dal Wolfsburg, qualcuno storceva il naso. Troppo caro, troppo fragile, troppo discontinuo. Era il Kevin che il Chelsea non aveva capito, che Mourinho aveva accantonato, che la Premier non aveva ancora adottato.
Dieci anni dopo, lo salutano sei Premier League, cinque Coppe di Lega, due FA Cup, una Champions League e un totale di oltre 180 tra gol e assist in partite ufficiali. Ma, più di ogni trofeo o statistica, resterà il modo in cui ha cambiato il calcio del City. E forse della Premier intera.
De Bruyne non è stato solo un centrocampista offensivo. È stato un regista avanzato, un esterno a piede invertito, un mezzofondista che correva tra le linee, un numero 10 che riscriveva la geometria del campo. L’unico, forse, in grado di rendere il gioco posizionale di Guardiola meno prevedibile, più verticale, più umano. Più inglese.
Il gesto tecnico come dichiarazione d’intenti
Kevin De Bruyne ha incarnato un’idea precisa di calcio. Non quella del fraseggio ossessivo fine a sé stesso, ma quella del passaggio tagliente, che rompe le linee, che ti apre la porta senza bussare. Le sue traiettorie diagonali da destra verso il centro sono diventate una firma, un gesto riconoscibile come il gancio di un pugile o il rovescio di Federer.
Pochi giocatori nella storia hanno avuto il suo talento nella rifinitura. Secondo Opta, è stato per anni tra i primi in Europa per passaggi chiave, expected assists e creazione di occasioni. Ma De Bruyne non era solo numeri. Era ritmo. Era tempo. Era la capacità di far accelerare una squadra in un attimo, di trasformare un possesso orizzontale in una stilettata verticale.
La sinfonia e il suo direttore
Nel grande romanzo del City di Guardiola, ci sono pagine dedicate a Silva, Agüero, Kompany, Gündogan. Ma il capitolo più lungo è quello di Kevin. Perché è stato il giocatore che meglio ha incarnato la sintesi tra controllo e improvvisazione. Il più ordinato dei creativi. Il più creativo degli ordinati.
Guardiola ne ha fatto il suo perno anche nei momenti difficili. Quando il City cercava di sbloccarsi in Champions. Quando la squadra sembrava diventare troppo meccanica. Quando serviva un guizzo per rompere l’inerzia. C’era sempre lui, con le sue corse a testa bassa e quel cross “a banana” verso il secondo palo che sembrava riscrivere le regole del tempo e dello spazio.
L’ultima versione di sé
Negli ultimi anni, Kevin ha cambiato pelle. È diventato più centrale, più riflessivo. Ha corso meno, ma ha pensato di più. Guardiola lo ha impiegato anche in coppia con Rodri, in una mediana atipica, o alle spalle di Haaland, a orchestrare gli inserimenti di Bernardo, Foden e Grealish.
Nella stagione del Treble (2022/23), è stato determinante. Senza il suo contributo, senza i suoi lampi di intuizione e leadership, probabilmente quella Champions non sarebbe mai arrivata. Eppure, ha sempre tenuto un profilo basso. Non ha mai cercato la copertina. Non è mai sembrato interessato a essere il volto del progetto. Lo è diventato per merito, non per volontà.
Cosa resta, dopo di lui
L’addio di De Bruyne segna qualcosa di più della fine di un rapporto sportivo. È la conclusione di un’epoca in cui il Manchester City era ancora una squadra “umana”, fatta di giocatori che avevano costruito la propria identità dentro al club. Oggi il City è una macchina sempre più perfetta, sempre più profonda, ma sempre più remota.
Chi prenderà il suo posto? Foden ha talento, Gvardiol è il futuro, Nunes e Kovacic portano dinamismo. Ma nessuno ha quella miscela irripetibile di cervello, cuore e piedi. Nessuno può replicare quel calcio di velluto con la lama dentro.
L’ultima corsa
C’è una scena, nel film “Il sapore della ciliegia” di Kiarostami, in cui un uomo cammina lentamente lungo una collina, con il sole che tramonta alle sue spalle. Non succede nulla, eppure è il momento più intenso del film. Forse l’addio di Kevin De Bruyne è così. Silenzioso, elegante, inevitabile.
Già si parla di statue, di tributi, di eredità. Guardiola ha detto che merita un monumento. E probabilmente ce ne sarà uno, in bronzo, a immortalare il gesto che meglio lo rappresenta: la palla colpita d’interno destro, il busto leggermente inclinato, lo sguardo che ha già visto ciò che noi capiremo solo due secondi dopo.
Quando se ne andrà, Kevin De Bruyne porterà via con sé un pezzo di calcio moderno. Un calcio che sapeva essere geometria e ispirazione, logica e magia. E anche se torneremo a vedere cross, filtranti e assist, sapremo sempre riconoscere chi li ha fatti prima, meglio, con più grazia.
Perché certi calciatori non finiscono davvero. Si dissolvono nel gioco, e da lì non escono più.