C’è stato un momento, forse nemmeno troppo lontano, in cui si pensava che il calcio potesse rappresentare un valore nazionale. Non un giocattolo da esibire alle fiere dell’estero, ma una parte viva del nostro tessuto sociale, economico e culturale. E invece eccoci qui, nel 2025, a constatare l’ennesimo fallimento di sistema. Non perché non si giochi più a calcio, ma perché si è smesso di proteggerlo. Di considerarlo un patrimonio. Di sentirlo nostro.
E allora la domanda è: dov’era lo Stato?
Perché il punto non è solo che i club italiani, uno dopo l’altro, siano finiti nelle mani di fondi d’investimento stranieri. Il punto è che tutto ciò è avvenuto senza una visione, senza una regia, senza un filtro culturale o industriale. Il calcio italiano è stato lasciato in balia delle onde, e quelle onde si chiamano RedBird, 777 Partners, Oaktree, Sport Capital Group. Le chiamano “opportunità”, ma per chi?
Nel mondo finanziario il calcio è diventato una commodity. Una materia prima. Si compra basso, si spera di vendere alto. Poco importa se nel frattempo il club perde l’anima, lo stadio cade a pezzi e i tifosi diventano semplici “target di mercato”. La priorità non è più vincere, ma massimizzare il ritorno dell’investimento. I fondi americani operano così: applicano logiche di breve periodo in un contesto — quello sportivo — che vive di cicli, cultura, continuità.
I Governi? Assenti.
Non c’è stata alcuna politica industriale di salvaguardia per un settore che genera PIL, posti di lavoro, turismo, e che soprattutto forma identità. Nessun vincolo all’acquisto dei club da parte di realtà opache o instabili, nessun incentivo fiscale per il radicamento territoriale, nessuna strategia per proteggere i vivai, nessun piano strutturale sugli stadi. Semplicemente: si è lasciato fare.
Ci si lamenta — giustamente — del fatto che l’Italia non produca più campioni. Che le Nazionali giovanili non brillino. Che l’Europeo sia diventato un incubo, non più un sogno. Eppure non si vuole guardare alla radice del problema: il calcio italiano non è più un progetto italiano. È una filiale, un satellite, una proprietà d’altri.
Chi dovrebbe investire nei settori giovanili, nella formazione degli allenatori, nella costruzione di impianti, non ha né l’interesse né la visione per farlo. Vuole risultati a tre anni, non crescita a dieci. E così i talenti si spengono, oppure fuggono. Chi resta è destinato a essere spremuto, svenduto, o umiliato dalla precarietà di un sistema che non lo tutela.
E poi c’è il tema dell’appartenenza, che forse è il più lacerante. Chi può sentirsi realmente rappresentato da una proprietà che non parla la nostra lingua, che non ha storia nel nostro calcio, che gestisce un club come gestirebbe un centro commerciale?
Una volta le società avevano facce riconoscibili. Presidenti-padroni, certo, ma anche simboli. Adesso abbiamo CEO, fondi fiduciari e mail da Delaware. Difficile appassionarsi.
Gli altri Paesi proteggono. Noi svendiamo
In Germania, la regola del 50+1 difende i club dal controllo totale dei capitali esterni. In Spagna, La Liga impone rigidi paletti economici e valorizza la cantera. In Inghilterra, dove pure il business ha stravolto tutto, le istituzioni pubbliche intervengono quando serve — basti pensare al veto del governo britannico sulla Superlega. E in Francia, lo Stato finanzia direttamente gli stadi per aiutare i club ad aumentare i ricavi.
In Italia? Tagli allo sport, zero visione, e un’unica strategia: arrangiatevi.
Nessun piano stadi, nessuna infrastruttura
San Siro è l’emblema di tutto questo. Un monumento nazionale lasciato all’incuria e alla speculazione. Milano avrebbe potuto diventare il centro della modernizzazione calcistica, invece è rimasta ostaggio di veti incrociati, burocrazia, interessi contrapposti. E i Governi? Di nuovo: muti. Nessuna riforma seria sugli stadi, nessun supporto a una transizione necessaria. Altrove si costruisce. Da noi si litiga.
Il tifoso italiano è stato spogliato del suo ruolo. Non è più parte attiva del club, ma target marketing. Gli si chiede di comprare, non di credere. Di guardare highlights, non di raccontare leggende. Le curve vengono zittite, le tradizioni ignorate, il passato riscritto per fare spazio a loghi nuovi, slogan vuoti, e social media manager che non sanno cosa sia un derby. Il risultato? Una disaffezione crescente.
Molti smettono di abbonarsi. Altri si rifugiano nella nostalgia. I più giovani tifano per il City o il Real. Perché almeno lì, vincono.
E allora che fare?
Il primo passo è ammettere che si è sbagliato tutto. Che il calcio italiano ha bisogno di una politica industriale. Che lo Stato deve tornare a occuparsi — con intelligenza e visione — di questo patrimonio culturale.
Serve:
- una legge-quadro per lo sport professionistico, che regoli gli ingressi dei fondi e tuteli i club;
- un piano nazionale stadi, con contributi pubblici a fronte di progetti sostenibili;
- incentivi fiscali per gli investimenti nei vivai e nella formazione;
- un intervento sul sistema di governance della FIGC e della Lega Serie A, che oggi non rappresentano più l’interesse collettivo.
E serve, soprattutto, un cambio di narrazione. Basta raccontare che il calcio è solo intrattenimento. Il calcio è società. È economia. È identità.
La politica ha lasciato solo il calcio italiano.
Ora il calcio italiano rischia di lasciare soli noi.
E allora, prima che sia troppo tardi, servirebbe un atto di coraggio. Un sussulto. Un “basta così” che non venga solo dai tifosi, ma da chi ha il potere — e il dovere — di fare qualcosa.
Anche perché, quando spegneranno l’ultima luce a San Siro, non sarà più uno sport a spegnersi. Sarà un pezzo d’Italia.
Ciao Rinaldo, concordo in toto con questa disamina e mi chiedo se siamo così sicuri che la politica abbia nei suoi interpreti qualcuno capace di una tale riforma.Ne dubito fortemente…un abbraccio
Enrico