C’era una volta un calcio che si vendeva da solo. Bastava una telecamera a bordo campo, qualche grande nome sulle maglie e il resto lo facevano le domeniche pomeriggio davanti alla TV. Oggi, invece, il calcio italiano si trova di fronte a un bivio storico, uno di quelli che non fanno rumore finché non è troppo tardi.

Secondo Alessandro Giudice del Corriere dello Sport, si starebbe profilando per la Serie A la possibilità di una rinegoziazione al ribasso del contratto con DAZN, sulla falsariga di quanto già avvenuto in Francia con Amazon e la Ligue 1. Da 900 milioni annui a circa 700 milioni. Una sforbiciata da 200 milioni che non è solo un dato contabile: è un sintomo di un sistema che sta lentamente implodendo sotto il peso delle sue stesse aspettative.

Dal boom di Sky all’era DAZN: cronaca di un rapporto difficile

Quando nel 2003 Sky Italia entrò nelle case degli italiani con la Serie A in esclusiva, sembrava l’alba di un’epoca d’oro. Galliani parlava di un prodotto esportabile in tutto il mondo, i presidenti di club medio-piccoli sognavano introiti milionari, e la Juventus di Capello e Ibrahimović apriva le danze. Quell’epoca, però, aveva un pubblico che oggi sembra un ricordo lontano: abbonati disposti a pagare cifre importanti per il calcio, stadi che iniziavano a svuotarsi ma con l’illusione che bastasse un buon palinsesto TV per reggere tutto.

Poi sono arrivati i problemi. La crisi economica del 2008, i match fixing, gli stadi fatiscenti, i campioni che prendevano l’aereo per la Premier League. E infine DAZN, la piattaforma che doveva rivoluzionare lo streaming sportivo e che invece ha vissuto tra blackout, critiche per la qualità e un’offerta che molti considerano poco competitiva rispetto ai prezzi.

Secondo le ultime stime, il numero di abbonati DAZN in Italia sarebbe intorno a 2,2 milioni, di cui una parte rilevante solo per i pacchetti minimi o condivisi. In confronto, la Premier League vende i propri diritti domestici per circa 2 miliardi annui con un pubblico ben più fidelizzato.

Il caso francese e il rischio italiano

In Francia, la Ligue 1 è già passata attraverso questo incubo. Nel 2020 Mediapro aveva promesso 1,2 miliardi l’anno per trasmettere il campionato. Dopo pochi mesi il castello di carte è crollato: canoni non pagati, contratti rescissi e ritorno alla negoziazione con Amazon per circa 250 milioni annui. Una svalutazione che ha messo in ginocchio club come Bordeaux e Saint-Étienne, precipitati in Ligue 2 anche per difficoltà finanziarie.

Per l’Italia lo scenario non è (ancora) così estremo, ma il segnale è chiaro: il prodotto Serie A non vale più come una volta. Gli ascolti crollano, gli stadi sono mezzi vuoti (la media spettatori 2024/25 è tornata sotto i 25.000 a partita), e i giovani preferiscono NBA, eSports o highlights su TikTok piuttosto che abbonarsi a una piattaforma streaming.

Cifre fuori controllo e disaffezione del pubblico

La Serie A incassa 900 milioni da DAZN e Sky, ma distribuisce oltre il 70% di quei soldi in stipendi ai calciatori. Secondo l’ultimo report FIGC, i club italiani spendono circa 1,5 miliardi l’anno in salari, a fronte di ricavi sempre più stagnanti. In pratica, senza i diritti TV molti club non avrebbero modo di chiudere i bilanci.

Nel 2025, con un campionato che offre pochi big match fuori dalle solite 4-5 squadre, la domanda è: perché un tifoso medio dovrebbe continuare a pagare 40-50 euro al mese?

Un prodotto da reinventare

Se la riduzione a 700 milioni diventasse realtà, sarebbe uno shock per il sistema. Club già al limite come Genoa o Verona rischierebbero di dover tagliare in modo drastico i costi, mentre le big si troverebbero costrette a rivedere i loro modelli di business.

E qui la riflessione diventa più ampia: la Serie A ha mai realmente provato a reinventarsi? Negli anni ha perso appeal all’estero (oggi il campionato è trasmesso in meno di 50 paesi con contratti da pochi milioni), non ha saputo rinnovare gli stadi – con l’eccezione di poche realtà come Juventus Stadium, Udine e Bergamo – e ha spesso privilegiato la spartizione politica degli introiti alla valorizzazione del prodotto.

Cosa resta?

La rinegoziazione al ribasso potrebbe essere il momento in cui il calcio italiano sarà costretto a fare i conti con la realtà: non basta più la nostalgia di Baggio, Totti o Del Piero per vendere il campionato all’estero. Non basta nemmeno avere una Juventus, un Milan o un Inter che ogni tanto arrivano in semifinale di Champions.

Forse, come diceva un vecchio dirigente UEFA, il calcio italiano deve smettere di pensare ai soldi facili dei diritti TV e iniziare a costruire un modello più sostenibile: più giovani in campo, più stadi moderni, meno ingaggi insostenibili.

Come scrisse una volta Simon Kuper sul Financial Times, “il calcio è lo sport più amato perché ha sempre saputo cambiare senza mai tradire se stesso”. La Serie A è pronta a farlo o resterà prigioniera del suo passato?

2 thoughts on “Serie A in saldo: diritti TV a rischio

  1. L’articolo, per quel che mi riguarda, non dice nulla di sorprendente, il calcio ormai ha preso una direzione che lo porterà nel baratro cosi come è stato per la boxe volendo fare un parallelismo.
    I problemi nascono 20 anni fa, ciò che vediamo oggi è la conseguenza delle scelte e delle visioni limitate dell’epoca.
    A mio modo di vedere il calcio è sopravvissuto dalla fine dell 800 ad oggi perché ha cercato di rimanere autentico, lo sport del popolo, aperto a tutti, con poche regole, semplici e la possibilità di unire gran parte del mondo mantenendo però delle caratteristiche ben precise dal punto di vista geografico che lo caratterizzavano, dal futbol bailado brasiliano, al calcio fisico tedesco e cosi via… Con la globalizzazione però e le varie sentenze che hanno permesso la libera circolazione degli atleti tutto è cambiato, bisogna elencare le varie componenti stando solo al modello italiano altrimenti bisognerebbe fare un trattato sociologico globale
    – le proprietà italiane oggi, sono per la maggior parte straniere, fondi per lo più, che hanno studiato grafici e numeri di decenni o lustri fa, pensando che ci sarebbero stati gli stessi introiti al minimo, modelli da sviluppare oltre che un costante numero tifosi che investissero per la squadra, non calcolando però che il mondo oggi cambia in maniera veloce, alcuni studi elencati da Florentino Perez, dimostrano che oggi la generazione dagli anni 2000 è molto meno attenta nel seguire le partite che ormai risultano troppo lunghe e noiose, preferiscono vedere gli highlights, tre quattro minuti al massimo e quindi non spendono i loro soldi per abbonamenti allo stadio o alle tv sempre più costose.
    oggi il calcio è seguito per lo più da persone over 40 e questo nel tempo, per una questione ciclica farà si che i fruitori del calcio saranno sempre meno, i burocrati del calcio lo sanno e per questo cercano di allargare la platea a paesi asiatici o africani soprattutto.
    Ma perché in Italia ed in gran parte d’Europa si è arrivati a questo?
    Il motivo a mio modo di vedere, è dovuto al fatto che si è persa l’identità, il tifoso oggi non ha più un campione da idolatrare, i giocatori sempre più stranieri, restano 2 3 4 anni e poi vanno via, i dirigenti delle squadre parlano sempre più di rado, il tifoso medio ormai tifa a prescindere i colori ma senza sapere quali sono i programmi del proprio club perché sono stati educati negli ultimi anni a tifare a prescindere, ma con la calcolatrice, perché il calcio deve essere sostenibile, quindi si vende perché bisogna vendere, ma nessuno spiega del perché bisogna vendere? Il voler fare profitto in chi viene dall’altra parte del mondo è un concetto tabù, non si può dire ovviamente, si ha timore che una parte del tifo possa aprire gli occhi, ma è palese che molti abbiano capito il giochino del calcio come azienda, quindi profitto.
    Se educhi il tifoso all'”obiettivo quarto posto” come un animale sociale si convincerà nel tempo che quello è il fine ultimo, ma nel calcio essendo un Sport bisognerebbe gareggiare per vincere, non per incassare introiti che servono alle proprietà per arricchire i propri affari.
    Oggi il calcio in Italia è diventato questo, i numeri sono in calo perché i “fedeli” sono sempre meno, chi viveva il calcio come una religione continua a farlo ed è over, i giovani si appassionano ad altro senza voler entrare nel merito altrimenti bisognerebbe aprire altri macro temi.
    La politica del calcio in tutto questo cosa fa? Nulla, gli amministratori over anche loro pensano sempre più ai profitti, quindi più partite più pubblicità, più pubblicità più soldi per i club, più soldi ai club più ingaggi ai calciatori, è un circolo vizioso che attanaglia tutto il sistema, dove tutti dicono che si gioca troppo, ma nessuno vuole rinunciare a niente, si va quindi a giocare anche in Australia per qualche milione in più, tutto pur di incassare, questo ad un certo punto scatenerà la falla che creerà la voragine, perché ad un certo punto il sistema imploderá.
    Ma perché accadrà l’implosione? Secondo me perché oggi l’offerta di calcio è bulimica, si gioca tutti i giorni dell’anno 7 su 7, chi si ingozza di calcio esplode ad un certo punto, si sentirà la mancanza dell’attesa per l’evento, quando tutto diventa routine, si crea assuefazione che unita alla perdita di identità del perché tifare questi colori piuttosto che questi altri o perché pagare cosi tanto per una partita inutile quando gli stipendi sono fermi da 40 anni, una catena che spezzerà gli anelli prima o poi e non basteranno più gli occasionali allo stadio, non basteranno i tifosi asiatici, quando arriverà il momento in cui tutti questi fattori anche per motivi sociologici e sociali si uniranno arriveremo a guidare le partite dei robot che calciano una palla perché la novità risulterà più interessante di un prodotto vecchio, insignificante e che non genera più emozioni.
    Grazie Morelli se avrà avuto la pazienza di leggere tutto.
    Danilo Figurelli

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