C’è una scena che si ripete, come una parabola laica, ogni volta che una grande squadra cade. È la scena della curva che canta anche dopo il fischio finale, quando lo stadio si svuota e rimangono solo i cori a riempire il vuoto. È successo ieri a Castellammare di Stabia, dopo il pareggio con la Juve Stabia. Finisce 0-0, ma il risultato è quasi un dettaglio. La Sampdoria è ufficialmente retrocessa in Serie C. Per la prima volta nella sua storia.
È difficile anche solo scriverlo. Perché la Samp, nel calcio italiano, è sempre stata qualcosa di più di una semplice squadra. È stata stile, estetica, visione. È stata quella maglia che sembra dipinta da un pittore del dopoguerra, con il blu profondo che si fonde a strisce orizzontali di bianco, rosso e nero come un’opera astratta che parla di mare e di passione. È stata, soprattutto, un’idea di bellezza che ha saputo affermarsi in un calcio spesso dominato dal potere e dalla forza.
Ma ora, 13 maggio 2025, la Sampdoria cade nel suo punto più basso. Non era mai successa una cosa del genere. Neanche nei periodi più cupi. Nemmeno durante gli anni della gestione Ferrero, con quel misto di farsa e angoscia che ha fatto sembrare la Serie B quasi un sollievo. Oggi non c’è più il grottesco: c’è il silenzio. E c’è il peso della realtà.
La Sampdoria è stata una squadra d’élite
Per capire cosa significa davvero questa retrocessione, bisogna tornare indietro. Non solo agli anni ’90, quando la Samp di Paolo Mantovani vinceva lo scudetto (1990/91), sfiorava la Coppa dei Campioni (Wembley 1992, finale persa contro il Barcellona), e scriveva una delle storie più romantiche del nostro calcio. Bisogna tornare a come quella squadra è nata. A cosa rappresentava.
La Sampdoria è stata, per anni, una squadra d’élite in senso culturale, prima ancora che sportivo. Non il club ricco, non il club potente. Ma il club che aveva scelto un’estetica. Un’idea precisa di come si stava al mondo. Con eleganza, con umanità, con un senso del limite che non era modestia, ma misura.
Mantovani, presidente e mecenate, era prima di tutto un uomo colto. Che trattava i giocatori come uomini, e lo faceva in un’epoca in cui i presidenti spesso li trattavano come figurine da spostare o da minacciare. Il suo calcio aveva una dimensione artigianale, ma anche una precisione chirurgica. Quella Samp era una squadra costruita pezzo per pezzo con intelligenza: con gli occhi di chi vedeva oltre.
E così sono arrivati Vialli e Mancini, Cerezo e Dossena, Vierchowod e Pagliuca, Lombardo e Katanec. Una squadra che giocava un calcio moderno, intenso, tecnico, europeo, eppure profondamente ligure. Sottotraccia, silenzioso, ma tenace.
Il tempo si è rotto
Negli ultimi vent’anni, qualcosa si è spezzato. Non solo nella Sampdoria, ma nel calcio italiano. La logica dell’industria ha divorato il tempo dell’attesa, della costruzione. I club sono diventati aziende senza memoria, e la Samp ha provato a resistere come ha potuto. Poi è crollata.
È crollata nella confusione, nel vuoto di potere, nella mediocrità dirigenziale, nei debiti accumulati da una gestione irresponsabile. È crollata nella corsa alla sopravvivenza, nella paura di cadere ancora. Fino a oggi, quando il fondo è stato toccato davvero.
La Serie C non è solo una categoria. È una dimensione quasi metafisica. È il calcio che non fa rumore, che sopravvive ai margini del sistema, spesso ignorato da chi detta l’agenda sportiva. Per un club come la Samp, è uno shock culturale prima ancora che sportivo.
Ma non è un’epigrafe
Eppure, attenzione. Non siamo qui per scrivere un’epigrafe. La retrocessione in C non è la fine della storia, semmai il suo nuovo inizio. E se c’è un club che può trasformare una caduta in una rinascita, quello è la Sampdoria.
Perché ha una tifoseria che non ha mai tradito. Perché ha una città che, nonostante la rivalità eterna col Genoa, riconosce nella Samp un pezzo profondo della propria identità. Perché ha un immaginario ricco, pieno di simboli, di colori, di canzoni, di rituali. E perché il calcio italiano ha bisogno della Sampdoria. Non solo per motivi nostalgici, ma perché il calcio non può vivere solo di chi vince. Deve anche ricordarsi di chi ha saputo come vincere.
Una nuova resistenza
Ripartire sarà durissimo. La Serie C è un campionato pieno di trappole. Non basteranno il blasone, il nome o la maglia. Servirà un progetto vero. Servirà tempo, pazienza, visione. E soprattutto servirà disintossicarsi da una certa idea tossica di gestione che ha portato qui.
Non c’è nulla di romantico nella sofferenza, se non c’è prospettiva. La Samp ha già vissuto una rinascita — dopo la retrocessione in B nel 2011 — ma questa volta è più difficile. E proprio per questo, può essere più profonda. Può essere l’occasione per ripensarsi, per tornare a costruire non una squadra da promozione, ma un’idea di calcio.
Un calcio con identità. Con radici. Con ambizione. Ma anche con dignità.
Perché il calcio italiano ha bisogno della Samp
Senza la Samp, il calcio italiano è più povero. Più grigio. Meno elegante. Meno umano. Perché la Sampdoria non è solo un club: è un racconto. E i racconti non si spengono mai davvero. Cambiano forma, scendono di tono, ma poi risalgono. Perché sono più forti della cronaca.
E allora sì, oggi è il tempo del dolore. Ma domani — forse già domani — può essere il tempo della resistenza. E poi della risalita. Perché ci sono cose che non si cancellano. E la maglia blucerchiata è una di queste.
Parole bellissime e scritte da una penna sopraffina. Mancherà a tutti la Sampdoria, certo, così come per anni è mancato il Torino, così come negli anni ottanta mancava la Lazio che rischiò lo stesso epilogo di questa Samp.
Il calcio è cambiato, sì, moltissimo, ma oggi come forse mai prima avere una proprietà e una dirigenza con programmazione, idee, cultura sportiva e competenza può fare realmente la differenza. La Samp è finita in serie C con il miglior marcatore nella storia della serie B assieme a Schwoch, cioè Massimo Coda, con un portiere come Cragno. I nomi servono a poco se dietro non c’è una struttura solida. A buon intenditor poche parole.
Marco