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“Dovranno avere i capelli in ordine, c’è già un parrucchiere di Monza che ha detto farà i capelli gratis”. “Niente barba e niente tatuaggi, non voglio neanche orecchini vari. I miei giocatori saranno un esempio di correttezza in campo, si scuseranno con gli avversari in caso di fallo e tratteranno l’arbitro come un signore. Se richiesto l’autografo non faranno schizzi, ma scriveranno bene nome e cognome e andranno sempre in giro vestiti con sobrietà e a modo. Voglio qualcosa di diverso dal calcio attuale”.
Era il 5 ottobre del 2018 e Silvio Berlusconi aveva da poco rilevato il Monza. Dopo aver chiuso la parentesi più bella e vincente della storia del Milan, il Presidente aveva deciso di rituffarsi in prima persona nell’avventura brianzola. Un’avventura di successo, dato che gli investimenti e la competenza hanno portato il Monza in Serie A riuscendo a stabilirsi come realtà del calcio italiano.
La frase che ho riportato appare forse eccessiva, anacronistica, quasi goliardica se attribuita ad un uomo che ha fatto dell’ironia (spesso sopra le righe) un marchio di fabbrica, al pari dei suoi indiscutibili successi. Eppure, all’interno di quello che sembra un forzare la mano rispetto ai tempi moderni, c’è traccia di quello “stile Milan” che spesso è emerso.
Questo non ha rappresentato solamente il gioco, il voler imporre il dominio sportivo sull’avversario, le coppe e i trionfi. E’ stato il filo conduttore di un modo di porsi verso l’esterno, di un’apparenza che diventava spesso sostanza. Fa sorridere, pensando alle tante marachelle di Silvio Berlusconi, eppure questo atteggiamento può insegnare molto.
L’appartenenza ad un club che nasce “basso”, che ha tifosi “casciavìt” è la rappresentazione della voglia di migliorarsi che un tempo caratterizzava le classi meno alte. Negli anni ’70 non era insolito che un operaio andasse in fabbrica vestito di tutto punto per non mostrare, agli occhi dei passanti, la sua reale condizione. Far studiare un figlio, fargli prendere una laurea rappresentava l’orgoglio di chi aveva l’ambizione di crescere e migliorarsi.
Tutto intorno a noi era più elevato. I politici alla televisione parlavano una lingua ricercata, forzatamente forbita proprio allo scopo di non farsi capire da tutti. Questo grado di separazione spingeva ancora di più le persone a voler non solo sembrare ma anche essere migliori.
Oggi, coloro che dovrebbero rappresentare il livello superiore si comportano e parlano come, se non peggio, le classi inferiori. La spersonalizzazione, il voler essere “del popolo” non per aiutarlo ma solamente perché si è effettivamente allo stesso livello culturale è un pezzo di storia che racconta la decadenza della società attuale.
In quegli anni, almeno fino alla fine dei ’90 e all’avvento dei social network (veri catalizzatori di ignoranza e frustrazione), il senso di “stile Milan” emergeva chiarissimo.
Lealtà, sportività, dichiarazioni sobrie. Il tutto all’interno del mondo calcio, le cui dinamiche sono chiare. Questo per specificare che non voglio beatificare la gestione Berlusconi, la quale ha operato più e più volte danzando pericolosamente sul filo dell’estremo compromesso.
Specchio dei tempi, dicevo. In questo senso, le recenti disavventure social di colui che è stato eletto “uomo immagine” del Milan si inseriscono perfettamente nella realtà attuale. Le scenette con sedicenti “influencer”, l’azzeramento evidente di eleganza e stile (lo si nota anche dall’abbigliamento), la mancanza di quei freni inibitori che dovrebbero essere iscritti alla voce “1” del curriculum di un dirigente.
Il successo di queste iniziative porta sicuramente visibilità, porta il Milan nella dimensione del setaccio. Voler raccattare qualche migliaio di like o condivisioni social da parte di un pubblico giovane è sicuramente una strategia moderna ed efficace, tanto quanto becera e di cattivo gusto.
Nessuno può permettersi di fare il moralizzatore. La proprietà accetta e avalla questi teatrini ed essendo padrone del Milan è libera di agire come meglio crede. Allo stesso tempo, il tifoso può sentirsi per l’ennesima volta all’interno di quello che sembra più il Circo Barnum che un club calcistico.
La separazione tra il dirigente e l’influencer ancora non c’è stata e questo danneggia la nostra immagine. Forse, sottovoce, questa insofferenza nei confronti delle loro azioni è figlia del resto, ovvero del lato sportivo cementato come un lampione in Via della Mediocrità.
Il Milan targato RedBird è tutto un proliferare di messaggi veicolati e vincolanti. Un martellamento costante su temi prettamente occidentali, su campagne sociali più o meno opportune made in USA. Nulla di sbagliato in un mondo dove i calciatori della Nazionale francese indirizzano le intenzioni di voto. Purtroppo, per noi come per i francesi, questo non ha a che vedere con il pallone o per meglio dire non ha a che vedere con lo “stile”.
Affrontare temi delicati e di difficile soluzione con slogan e merchandising ha il sapore beffardo della fregatura. In un mondo asfissiato dal “politically correct”, in un mondo dove ci crediamo liberi ma siamo in realtà molto più censurati, scoprire che le finalità sono diverse dall’apparenza può creare rigetto.
Prestiamo attenzione a qualsiasi tema che produca profitto, tranne quello per il quale si tifa una squadra: il campo. Questa gestione asettica e fintamente sensibile ai grandi temi del nostro mondo sta creando distacco tra i tifosi e la squadra. Il Milan non sembra più un club che ha come obiettivo la vittoria, bensì qualcos’altro. Un qualcosa di indefinito e melasso tanto quanto la propaganda sbilanciata che si appoggia per fare cassa.
Una cosa è certa, questo non è lo “stile Milan”. Questa è un’altra cosa.
Come sempre, a conclusione di queste riflessioni, rimane solamente la speranza che un giorno potremo liberarci di tutto questo e tornare a tifare un club al quale interessa primariamente ciò che accade sul terreno di gioco.
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