Ci sono serate in cui il calcio non chiede competenze, tatticismi, mappe di passaggi o numeri da laboratorio. Ti si piazza davanti, ti fissa e ti chiede con brutale semplicità: “A che livello sei, davvero?”. E Norvegia–Italia è stata esattamente quella domanda, senza infiocchettature, senza illusioni e senza nemmeno il tempo di far decantare l’amarezza.

Fino all’intervallo la narrazione sembrava scritta. Partita seria, buona energia, applicazione, segnali di maturità, spirito diverso rispetto alle ultime qualificazioni, perfino l’idea di arrivare ai playoff con un minimo di fiducia costruita sul campo. Poi, in pochi minuti, il copione è stato accartocciato e buttato via, lasciando al suo posto una verità che forse conoscevamo da tempo ma che non avevamo il coraggio di ammettere a voce alta: la Norvegia oggi è più forte dell’Italia, più moderna, più intensa, più continua. E lo ha fatto senza la necessità di interpretare la gara come una finale da dentro o fuori, ma come un promemoria tecnico e atletico di ciò che siamo diventati e di ciò che loro sono diventati.

La Norvegia non ci ha battuti per casualità o episodio. Ci ha superati perché ha costruito un percorso coerente. Noi abbiamo vissuto per anni dentro un cuscino di memoria, raccontandoci che la storia ci protegge e che, in fondo, “basta essere l’Italia”. Funziona nei documentari, non nelle qualificazioni. Hanno chiuso un girone perfetto, pieno di gol, di fiducia e di identità. Noi abbiamo alternato momenti buoni a limiti ormai strutturali, cercando più spiegazioni che soluzioni. Il nostro registro comunicativo ha un lessico consolidato: differenza reti, regolamenti, destinazioni continentali, meteo, stati d’animo, sfortuna, incidenti di percorso. Il loro ha un’unica grammatica: campo, intensità, superiorità competitiva.

Nel confronto individuale non tutto è da buttare e nemmeno sarebbe corretto colpevolizzare i giocatori. Ci sono elementi promettenti, caratteri forti, profili in crescita e un portiere di livello. Tonali, Barella, Dimarco e altri ancora non rappresentano un problema, semmai sono parte della possibile ricostruzione. Il punto non è la qualità di alcuni, ma la distanza complessiva rispetto all’élite, una distanza che non si colma con il singolo talento ma con l’impianto che lo circonda. La differenza, oggi, non è tra chi ha un buon giocatore e chi ne ha due. La differenza è tra chi ha un sistema e chi ha ricordi.

Il problema non è nemmeno il passaggio ai playoff in sé, perché nel calcio capita. Ma in Italia questa condizione sta diventando una consuetudine, quasi un’abitudine comportamentale, un destino che invece viene letto come incidente. La Germania ha rifondato più volte, l’Inghilterra ha investito nella propria lega, la Francia ha trasformato la sua società civile in industria sportiva, la Spagna ha mantenuto una linea metodologica chiara. L’Italia, invece, ha conservato un’immagine di sé che non corrisponde più al presente. La nostalgia è piacevole, ma non è un programma di lavoro.

Siamo passati da nazionale delle certezze a nazionale della speranza infinita. Prima era un orgoglio competitivo, ora è un tentativo di autosuggestione. Eravamo il Paese che partiva per i Mondiali chiedendosi fino a dove arrivare. Siamo diventati il Paese che parte per le qualificazioni chiedendosi come non restare fuori. E il paradosso è che sembra quasi ci vada bene così, perché finché esiste un alibi, esiste anche una zona di conforto.

La questione psicologica pesa più del dato tecnico. Non è facile accettare che quattro Mondiali e due Europei appartengano alla storia e non allo stato attuale delle cose. Non è semplice riconoscere di aver perso qualcosa senza che nessuno abbia davvero deciso di perderlo. Tuttavia, fino a quando continueremo a pensare che la gloria sia un diritto e non un risultato, rischieremo di vivere altre serate come questa, con lo stesso copione e con la stessa incredulità.

L’Italia può rialzarsi, perché la materia prima non manca e il potenziale esiste. Ma serve una presa di coscienza collettiva: non siamo momentaneamente in difficoltà, siamo dentro una fase storica diversa. Il primo passo non è cambiare modulo, non è cambiare selezionatore, non è convocare nomi nuovi. Il primo passo è ammettere la nuova realtà senza timbro consolatorio. Non serve dramma, serve verità.

Chiudiamo con la domanda che vale più di ogni analisi tecnica: vogliamo ancora essere una nazionale da vertice o ci accontentiamo di essere una nazionale da playoff? Perché la risposta non arriverà da un gol al novantesimo, ma da ciò che decideremo di diventare quando nessuno ci guarda.

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