Ci sono storie che parlano di calcio, e poi ci sono storie che parlano del mondo attraverso il calcio. Quella che arriva dagli Stati Uniti, dal cuore di un’azienda come Southwest Airlines, è una di quelle che fanno capire molto di più anche del Milan, di RedBird, di Elliott. Perché alla fine, che tu venda voli o maglie rossonere, la differenza la fanno sempre le persone. O il modo in cui scegli di trattarle.
Per oltre cinquant’anni, Southwest è stata un modello alternativo. Non solo un’azienda redditizia, ma un luogo in cui lavorare significava appartenere a qualcosa. Dove “cultura” non era una parola da usare nei PowerPoint degli investitori, ma un collante tra chi saliva su un aereo e chi quell’aereo lo faceva volare. Un legame umano, autentico, imperfetto e proprio per questo insostituibile.
Poi è arrivata Elliott Management. Quelli che nel calcio conosciamo fin troppo bene. Quelli del taglia-e-riparti, del “prima sistemiamo i conti e poi vediamo”, del “i tifosi capiranno”. Quelli che — senza troppe metafore — prendono, spremono e vendono. Esattamente come stanno facendo con Southwest.
Il manuale dell’investitore attivista
Che sia un fondo o una holding, la regola non cambia. Si entra in una società con promesse di riforma, si tagliano i costi, si smantellano strutture considerate “non essenziali”, si ridefinisce la priorità: non più il cliente, non più il dipendente, ma l’investitore. L’unico stakeholder che conta davvero.
La cultura? Un lusso. La visione? Un peso. Le persone? Un costo.
Nel caso Southwest, sono partiti dai team interni dedicati proprio al benessere dei dipendenti, alla cultura aziendale. Licenziati. Epurati. “Non portano ROI”. Come dire che l’anima non genera utile. Non è quotata in borsa. Quindi fuori. E se resta qualche fastidioso accenno di umanità, lo si mette in pausa. Letteralmente. “Culture paused”, ha scritto il CEO.
E mentre i voli continuano, si vola in un’azienda vuota. Vuota dentro.
Ora capite perché parliamo di Milan
Il Milan che abbiamo conosciuto per decenni — quello dei valori, degli uomini simbolo, del senso di appartenenza — è stato il primo club in Italia ad essere oggetto del “progetto Elliott”. Si è parlato di salvataggio, di stabilità ritrovata, di rilancio. Tutto vero, sul piano contabile. Ma a che prezzo?
Il Milan è stato razionalizzato, semplificato, efficientato. Ha vinto, sì. Ma poi è stato venduto. E anche qui: non a un visionario, non a un mecenate del pallone, ma a un altro fondo. RedBird, che a sua volta deve rendere conto a chi? A Elliott. Sì, perché nel contratto di cessione c’è scritto chiaramente: il fondo di Paul Singer resta creditore, ha ancora voce in capitolo. È ancora lì. Come un’ombra.
Ecco allora che tornano le stesse dinamiche: tagli, rotazioni continue in dirigenza, licenziamenti mascherati da “ristrutturazioni”, cambiamenti a ciclo continuo che spezzano ogni forma di identità. L’abbandono di figure carismatiche, Maldini su tutti, non è stato solo un errore tecnico: è stato un atto simbolico. Come se Southwest avesse licenziato l’ultimo steward che ricordava le barzellette di Halloween.
Dal Milan alla multinazionale senz’anima
Ci dicono che serve essere sostenibili. Che non si può più fare calcio in perdita. Vero. Ma non è questo il punto. Il punto è che si può essere sostenibili con visione. Oppure si può scegliere di essere efficienti e basta. E quando scegli la seconda strada, ciò che resta è un Milan senza radici. Senza storia. Un’azienda. Non più un club.
Lo vediamo nelle decisioni di campo, nelle conferenze stampa vuote, nei bilanci esibiti come trofei, negli stadi da costruire prima ancora di sapere chi ci giocherà dentro. Lo vediamo nei tifosi trasformati in clienti, negli abbonati visti come linee Excel, nei bambini che non sanno più chi sia Baresi, ma ti chiedono se il Milan “ha un brand forte”.
Il cuore fuori bilancio
Southwest non aveva mai licenziato nessuno in 50 anni. Neanche dopo l’11 settembre. Neanche durante il Covid. Perché sapeva che il capitale umano era tutto. Il Milan, invece, ha tagliato Maldini dopo aver centrato la semifinale di Champions. Perché? Perché non era funzionale. Perché “i risultati non bastano, serve il metodo”.
Ma il metodo di chi? Di chi entra, estrae valore e poi lascia? Di chi considera “non strategico” avere volti riconoscibili in società? Di chi crede che la cultura sia un ostacolo al profitto?
Se Southwest sta perdendo la sua “LUV”, il Milan sta perdendo il suo amore. Quello dei suoi tifosi, che restano ma non si riconoscono più. Che guardano le partite senza sentire nulla. Che leggono le notizie di mercato come se fossero bilanci trimestrali. Che aspettano una direzione, una voce, una scelta che non arrivi sempre dal file Excel.
Il futuro oltre i fondi
Elliott, come sempre, non resterà per sempre. Il suo schema è noto: entra, sistema, monetizza, esce. Ma ciò che resta, alla fine, sono le macerie di ciò che c’era prima. Toccherà a chi viene dopo ricostruire. Magari a chi ama davvero questo club. Magari a chi ha ancora il coraggio di dire che il business del business non sono i numeri, ma le persone.
Perché ci vuole coraggio a volare come volava Southwest. E ci vuole coraggio a fare calcio come faceva il Milan. Con cuore. Con identità. Con umanità.
E se qualcuno ha il coraggio di ricordarlo, allora forse qualcosa si può ancora salvare.
“Una società è più forte se è legata dall’amore e non dalla paura.” – Herb Kelleher
Ecco, caro Milan: ricordatelo. E torna ad amare.