Negli ultimi due decenni, il calcio professionistico italiano ha ballato sulla soglia del collasso economico come un funambolo cieco, sospeso tra la grandeur del suo passato e la difficoltà cronica di sostenere il presente. La quindicesima edizione del ReportCalcio, pubblicata da FIGC, AREL e PwC Italia, non smentisce questa narrazione: lo fa anzi con la meticolosità di una perizia contabile, documentando con spietata lucidità lo scarto ancora esistente tra ambizione e sostenibilità. Ma racconta anche una parabola di contenimento, quasi di sopravvivenza razionale, in un ecosistema che pare iniziare — lentamente — a capire che senza fondamenta, nemmeno i sogni più grandiosi possono reggersi.
Nel complesso, i numeri fotografano un movimento che continua a perdere, ma meno di prima. Una Serie A che sfiora i 5 miliardi di valore della produzione aggregata, ma con 731 milioni di perdite. Un sistema che ha conosciuto stagioni ben peggiori — basti pensare agli oltre 1,3 miliardi di “rosso” nel 2021/22 — ma che non può ancora definirsi virtuoso. La direzione è quella giusta, certo. Ma il sentiero è ancora tortuoso e disseminato di insidie strutturali.
L’era del rosso sistemico
La cifra che impressiona, prima di tutte, è il dato storico: 9,3 miliardi di euro di perdite aggregate negli ultimi 17 anni nei campionati professionistici italiani. Un numero che non ha bisogno di aggettivi. Di questi, ben 3,6 miliardi sono ascrivibili al triennio della pandemia, a conferma del fatto che il COVID-19 ha rappresentato non solo un dramma sanitario e sociale, ma anche un acceleratore implacabile dei disequilibri economici preesistenti.
Non è un caso che l’80% dei bilanci analizzati nel periodo 2007-2024 sia stato chiuso in perdita. E se ci si concentra solo sugli anni pandemici, la percentuale sale all’82,6%. Un sistema che ha continuato a spendere, anche mentre gli stadi erano chiusi e i flussi commerciali si contraevano. È il riflesso di un modello che per anni ha inseguito la competitività sportiva come unico parametro identitario, disinteressandosi di una logica industriale.
L’equilibrismo post-pandemia
Ma negli ultimi due anni qualcosa si è mosso. Il calcio italiano ha iniziato — forse per necessità più che per virtù — ad allineare spesa e ricavo con una maggiore razionalità. Tra il 2021-2022 e il 2023-2024, il valore della produzione è cresciuto del 32,3%, mentre il costo del lavoro è salito solo del 7,2%. È un primo indizio di disciplina. L’incidenza degli stipendi sul fatturato è scesa dal 69,8% al 56,6%: un dato che, in altri settori, sarebbe ancora considerato insostenibile, ma che nel contesto del calcio italiano rappresenta un taglio chirurgico.
A questo si affianca una ripresa incoraggiante sul fronte ricavi: 4,5 miliardi nel 2023-2024, con gli sponsor per la prima volta sopra quota un miliardo, i ticket staccati vicini al mezzo miliardo e un’affluenza record da oltre 21 milioni di spettatori. Numeri che sembrano appartenere a un altro tempo, e che invece raccontano di una ritrovata centralità dell’esperienza dal vivo, anche nel calcio iper-mediatizzato dell’era post-COVID.
Il nodo costi
Ma se il lato dei ricavi mostra segnali positivi, i costi restano un macigno. La produzione è cresciuta (+6,7%), ma i costi non sono stati da meno (+4,1%), superando i 5,1 miliardi. È un calcio che continua a correre, ma con le caviglie zavorrate. Gli stipendi rimangono la voce dominante (il 50% dei costi complessivi), seguiti da ammortamenti e svalutazioni (21%), e da una serie di oneri gestionali che il sistema fatica a snellire.
La forbice tra Serie A, B e C si fa sempre più ampia: mentre la A aumenta del 4,7% i salari, la Serie B taglia del 4%, e la C esplode con un +22,5%. Un paradosso che lascia intuire tensioni interne al sistema: tra chi spende per inseguire una promozione sempre più incerta, e chi riduce per evitare il tracollo.
La partita dell’indebitamento
Un altro fronte su cui si intravedono segnali di contenimento è quello dell’indebitamento. Il calcio professionistico italiano registra un debito aggregato di 5,5 miliardi, in calo del 3,6%. Un sollievo parziale, ma significativo. Tuttavia, l’indicatore più rivelatore è forse il rapporto tra ricavi e debiti: se nel 2007/08 i ricavi coprivano il 97% dei debiti, oggi questa copertura è scesa all’83%. Una fotografia che parla chiaro: i club, pur migliorando, restano esposti.
Il patrimonio netto aggregato, tuttavia, è in netto aumento: +79,1% rispetto al 2022/23, per un totale di 615 milioni. È un dato che può essere letto come un ritorno di fiducia, come un rafforzamento della base patrimoniale dopo anni di erosione. Ma non è un punto di arrivo: è una transizione, fragile e ancora appesa al filo della governance.
Un sistema a rischio se non si evolve
La vera sfida del calcio italiano, però, non si gioca solo nei numeri. Si gioca nella capacità di trasformare questi segnali in un cambiamento strutturale. Perché se è vero che la riduzione delle perdite e l’incremento dei ricavi sono segnali positivi, è altrettanto vero che il modello resta precario. Troppo ancora dipende da singoli eventi (qualificazioni Champions, cessioni record), troppo poco da strategie a lungo termine.
E soprattutto, la governance del sistema appare ancora frammentata, incapace di una visione unitaria. La sostenibilità economica non può essere il risultato casuale di buone stagioni commerciali: deve diventare una prassi. Altrimenti il calcio italiano rischia di vivere in una continua oscillazione tra la buona notizia e il nuovo allarme.
Il ReportCalcio 2024 non è un bollettino di guerra, ma nemmeno un certificato di guarigione. È il resoconto di un paziente cronico che ha finalmente smesso di peggiorare. Ma che dovrà ancora imparare a camminare da solo, senza stampelle né illusioni. Per farlo, servirà qualcosa che i bilanci non misurano: il coraggio di cambiare davvero.