C’è un’immagine che resta impressa: Cristiano Ronaldo che, a 38 anni, stringe tra le mani la maglia dell’Al-Nassr come se fosse la chiusura di un cerchio e l’apertura di un portafoglio. Dietro di lui, schermi a LED scintillanti raccontano un futuro dorato per il calcio saudita. Ma è davvero così? È davvero questo il momento in cui un campionato fuori dall’Europa può diventare centrale nel calcio globale?

L’Arabia Saudita ha messo sul tavolo cifre mai viste: contratti da oltre 100 milioni di euro annui, proposte che sfidano ogni logica sportiva. Eppure, chi conosce la storia recente del calcio sa che non è la prima volta che un paese non europeo tenta di entrare nel club esclusivo dei “campionati che contano”. La Russia lo fece tra la fine degli anni 2000 e l’inizio del decennio successivo, con l’Anzhi di Eto’o e Roberto Carlos. La Cina ci provò pochi anni più tardi, strappando Oscar, Hulk e Lavezzi all’Europa con offerte impossibili da rifiutare.

La differenza, oggi, è che l’Arabia Saudita non gioca solo a calcio. Gioca a geopolitica.

 

Russia e Cina: quando il denaro non basta

Per capire cosa sta succedendo oggi bisogna tornare a quei due esperimenti falliti. La Russia, forte dei petrodollari e del boom economico post-sovietico, cercò di costruire club e campionato di livello europeo. L’Anzhi Makhachkala fece notizia quando pagò Eto’o 20 milioni netti l’anno (era il 2011, cifra allora surreale), ma la struttura non c’era: stadi vecchi, infrastrutture mediocri, poca competitività interna. E soprattutto, instabilità politica e sanzioni economiche che segnarono la fine del sogno.

La Cina, invece, sembrò più organizzata: un piano governativo che puntava a rendere il Paese una superpotenza calcistica entro il 2050. Arrivarono Oscar e Hulk allo Shanghai SIPG, Lavezzi all’Hebei Fortune. Ma la spinta era drogata da una speculazione interna: i club venivano usati come strumenti di leverage finanziario per grandi conglomerati (Evergrande in primis). Bastò una stretta del governo sui capitali esteri per far crollare il castello di carte. In entrambi i casi, le grandi firme non bastarono. Il prodotto rimase “esotico” per gli europei, e poco radicato a livello locale.

 

L’Arabia Saudita: il calcio come soft power

E qui arriva la Saudi Pro League. La differenza, come sempre, la fanno gli interessi.

Quello saudita non è un progetto sportivo isolato. È parte di Vision 2030, il programma strategico del principe ereditario Mohammed bin Salman per diversificare l’economia del Regno, ridurre la dipendenza dal petrolio e costruire un’immagine internazionale più moderna e attraente. Il calcio, in questo contesto, è soft power. Non si tratta solo di comprare Ronaldo, Benzema o Mané: si tratta di rendere l’Arabia Saudita una meta per il turismo di massa, un hub per eventi sportivi (vedi Formula 1, golf, esports) e un attore centrale nel business dello sport globale.

A differenza di Russia e Cina, il Regno può permettersi di investire senza un orizzonte di ritorno immediato. Il fondo sovrano PIF (Public Investment Fund) ha oltre 700 miliardi di dollari di asset e una visione a lungo termine. In pratica, anche se il progetto non si ripaga, sarà comunque servito a cambiare la percezione del Paese.

 

Limiti e illusioni

Ma il calcio resta un animale complesso. Due nodi restano difficili da sciogliere:

  1. La cultura calcistica: in Arabia Saudita c’è tifo, ma non (ancora) la stessa densità tecnica e tattica dei top campionati europei. Costruire un ecosistema che formi talenti locali richiede decenni.
  2. L’appeal globale: i diritti TV restano un tema enorme. Oggi la Saudi Pro League viene vista più come un contenuto curioso per highlight su YouTube che come un prodotto premium da seguire ogni weekend.

E poi c’è la questione etica. Per molti critici, il progetto è puro sportswashing, un modo per ripulire l’immagine di un regime che resta legato a violazioni dei diritti umani.

 

Un futuro ibrido?

Il vero interrogativo è se il progetto saudita voglia davvero sostituire l’Europa o semplicemente integrarsi nel sistema globale. In un mondo sempre più multipolare, forse la Saudi Pro League non diventerà mai la Premier League del Golfo, ma potrebbe ritagliarsi un ruolo stabile come “MLS di lusso”, una lega in cui veterani europei chiudono la carriera mentre il Paese ospita Mondiali (2034) e altri mega eventi. In fondo, la partita più importante per Riyadh non si gioca sul campo. Si gioca nei boardroom della FIFA, nei consigli di amministrazione dei broadcaster e negli investimenti che fanno della PIF un attore di peso anche in club europei (vedi Newcastle United).

 

Conclusione

La storia ci ha insegnato che i soldi non bastano a costruire un grande campionato. Ma questa volta non è solo una questione di soldi. L’Arabia Saudita ha in mente un piano molto più ampio, in cui il calcio è un tassello di un puzzle geopolitico e culturale.

Resta da capire se questo puzzle piacerà anche a chi, in Europa, il calcio lo vive come cultura, identità e non solo come contenuto da vendere.

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